Ospedale di Faenza: non solo cura...

"Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita" - Dino Campana, Canti Orfici.
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OSPEDALE DI FAENZA: NON SOLO CURA...

Sandro Bassi

Certo, come da tutti sottolineato, nei giorni della pandemia i pochi pensieri davvero grati sono andati a medici, infermieri e a tutto il personale impegnato nel soccorso. La cura e i suoi luoghi sono argomento di vita e di conforto, che accompagna da sempre la storia dell'uomo. Qui si vuole ricordare e raccontare del più importante tra questi ultimi, il settecentesco ospedale di Faenza, che si trova ancora nella sua ubicazione originaria (caso pressoché unico nella provincia di Ravenna) e che aldilà della sua funzione importantissima è anche luogo di interesse culturale, architettonico e artistico, oltre che storico, e che non a caso conserva al suo interno una meravigliosa chiesa e un museo.

«IMMUTATO» DA 27O ANNI
L’ospedale di Faenza nasce a metà Settecento in un clima di tensione verso la modernità, impersonate soprattutto da una figura, il vescovo Antonio Cantoni che sogna di dotare la città di un luogo di cura finalmente efficiente e razionale. Non che mancassero ospedali in una città del genere, anzi: ce n'era più d'uno, ma piccoli, separati fra loro e incapaci di fornire un vero servizio alla persona, sia per ragioni strutturali, sia per ragioni gestionali dovute all'ancora perdurante sistema, di origini medievali, che vedeva l’assistenza affidata a Confraternite, religiose o laiche, comunque dotate di risorse esigue. Nominato vescovo nel 1742, Cantoni propose subito di unificare i preesistenti ospedali (principalmente due: San Nevolone, nel vicolo omonimo e tuttora esistente come edificio, e Sant'Antonio Abate, in angolo fra la piazzetta Santa Lucia e via Orto Sant'Agnese, completamente scomparso) in un’unica struttura, da edificare ex novo al posto dell'antica rocca manfrediana, che sorgeva presso Porta Imolese.


Gianbattista Campidori, prospetto dell'ospedale e della chiesa di S. Giovanni di Dio. Faenza Biblioteca Comunale.
L'ospedale civile oggi in una foto di Marco Cavina.


II luogo era ritenuto comodo e salubre: lungo la via Emilia e non tra vicoli umidi, entro le mura cittadine ma in posizione marginale, già a contatto con la campagna. Ottenuto dal Papa il permesso di demolire la rocca, Cantoni stese inizialmente un'alleanza con la Municipalità, alleanza destinata ben presto ad incrinarsi e a trasformarsi in un autentico braccio di ferro. Cantoni alla fine vinse, soprattutto nel principale punto di controversia, relativo alla gestione assistenziale: il battagliero vescovo volle a tutti i costi i Fatebenefratelli, ordine milanese, specializzato in campo ospedaliero ma inviso al Comune, che si vedeva così spodestato. Ora, non è lecito giudicare a posteriori, con i metri di oggi, fatti e persone di quasi tre secoli fa. Si può dire solo che andò così e che con questa impresa economicamente gravosissima (per finanziarla si rastrellarono fondi ovunque, impiegando donazioni, rendite, prestiti, proventi di tasse ordinarie e straordinarie) Faenza perse la rocca - che oggi, con il senno del poi, sarebbe un’attrazione turistica e monumentale al pari di quelle di Imola, Cesena o Forlimpopoli - ma ebbe il primo nosocomio moderno di Romagna, preso poi a modello e imitato da parecchie città vicine. Il progetto, affidato a Raffaele Campidori, morto improvvisamente nel 1754, fu portato avanti dal figlio Gianbattista, più geniale e creativo del padre ma qui condizionato da esigenze funzionali e soprattutto di economia; egli concepì un prospetto esterno estremamente sobrio (lo si apprezza ancora oggi, è inalterato), un telaio scatolare, a modulo rettangolare e privo di qualsiasi decorazione.


Giovan Battista Borsieri.
L'impianto interno - su probabile suggerimento del Cantoni o comunque d'intesa con lui - riprendeva i modelli rinascimentali, con pianterreno a croce greca di cui è ancora riconoscibile un braccio, quello oggi adibito a corridoio d'accesso con le magnifiche colonne rivestite di stucco giallo simil-marmo. I malati stavano collettivamente, in queste quattro grandi corsie che convergevano al centro ove sorgeva un altare (sotto la grande cupola centrale, dove oggi sta lo scalone costruito nel 1891). C'era quindi un’evidente idea religiosa di base, tradotta anche nell'impostazione architettonica che non può dirsi innovativa ne sanitariamente del tutto efficiente, al netto delle situazioni degli ospedali preesistenti che erano infinitamente peggiori. I malati, peraltro, potevano godere di assistenza accurata (i Fatebenefratelli avevano esperienza di due secoli) e del resto, oltre alla Provvidenza, c'era finalmente un medico moderno, cioè quel Gianbattista Borsieri nativo di Civezzano (Trento), inviato a Faenza nel 1747 dal suo maestro bolognese in occasione, guarda caso, di un’epidemia, e certamente gradito e protetto dallo stesso Cantoni. L'idea religiosa si concretizza anche nell'importanza e bellezza della chiesa, dove Campidori si sbizzarrisce progettando un ambiente spazialmente semplice, ad aula unica, ma scandito da un abile uso di colonne e semicolonne e vivificato da modanature vibranti oltre che da decorazioni in bellissimi stucchi. In particolare, il motivo della colonna libera che inquadra il presbiterio, costante nell'architettura faentina del '700 e derivante dal prototipo della chiesa di Sant’Antonio, è ripreso anche qui per una miglior resa prospettica e per l'illusionistico effetto di dilatazione dello spazio.
COSA C'E DA VEDERE
Premesso che l'ospedale è luogo in cui ogni presenza turistica è da intendersi come secondaria e ammissibile solo a certe ovvie condizioni, c’è un notevole patrimonio di arredi antichi e moderni, concentrati principalmente nella chiesa e nel museo ma esposti anche nei corridoi e nei vari reparti, con compiti di abbellimento e, perché no, di conforto, tuttora vivi. Un vero itinerario di visita non è indicabile stante la straordinarietà della stessa, possibile solo su richiesta o in particolari occasioni organizzate dall’Ausl o da associazioni (Pro Loco, Italia Nostra, Amici dell’Arte, ecc.).



Filippo Comerio, L'arcangelo Raffaele assiste gli infermi.

Vescovo  Antonio Cantoni.


Giovanni Gottardi, Madonna della Misericordia di Dio e
 San Giacomo apostolo.


Qui ci limiteremo a dire che la chiesa ha ricevuto un impeccabile restauro, conclusosi nel 2003 e che ha riguardato anche le opere mobili, in particolare le tele di Filippo Comerio, pittore lombardo (poi divenuto faentino d'adozione) non a caso chiamato dai Fatebenefratelli per raccomandazione «di garanzia», cioè non politica o nepotistica ma semplicemente perché loro ne conoscevano la bravura. Spicca soprattutto l’ovale con l'Arcangelo Raffaele, simbolo per eccellenza di cura agli infermi. Comerio dipingeva come mai s'era visto a Faenza, con figure sfaccettate, elegantissime, allungate, anche riprendendo modelli classici (in questo caso da Parmigianino).


L'entrata all'ospedale civile.

Lo scalone dell'ospedale civile.

Pietro Melandri, Madonna del Roseto, ospedale civile.
Mirabilmente restaurata è anche la statua cinquecentesca di Sant'Antonio Abate, in terracotta, dubitativamente attribuita al grande plasticatore Alfonso Lombardi. Nella “Guida Storica di Faenza”, del 1882 pag. 97,  Antonio Montanari scrive che “la statua di S. Antonio Ab. è quella che in antico veneravasi all’ara massima della Commenda, prima che fra Sabba ne facesse dipingere in fresco le pareti di prospetto da Girolamo da Trevigi; la quale statua da taluni è attribuita ad Alfonso Lombardi”. Nel patrimonio esposto, quindi sempre visibile, si segnala l'impressionante pannello in ceramica di Pietro Melandri con la Madonna del Roseto, del 1928, con suggestioni decò, richiami simbolisti, virtuosismi tecnici - si vedano i delicati rilievi sui petali di rosa - ma soprattutto di straordinario impatto visivo ed emotivo. Per le numerose altre opere ci si può affidare ai pannelli in loco oppure a due importanti volumi: Settecento Riformatore, di A.C. Ferretti e G.Lippi, Faenza 1999 e Non solo pietà (a cura di G.Lippi, Ravenna 1997). Quest'ultimo descrive tutte le opere dei luoghi di cura dell’intera provincia (o meglio, di Faenza, Lugo, Fusignano, Massa Lombarda e Brisighella) e può fare da valido «pretesto» per analoghe, ulteriori visite.

Notizie correlate: Vescovo Antonio Cantoni Giambattista Campidori

San Nevolone
L'ospedale civile e la Madonna del Roseto di Pietro Melandri Pestilenze nei secoli a Faenza


Libro consigliato:
"L'Ospedale degli Infermi di Faenza", a cura di Carlo Biagini, Firenze University Press, 2007


L'edilizia ospedaliera, per le sue inevitabili implicazioni sul piano individuale e collettivo, ha rappresentato in ogni periodo storico il più avanzato livello di elaborazione di modelli architettonici tesi alla migliore sintesi di forma, funzione e tecnica. La lettura tipo-morfologica dell'Ospedale degli Infermi di Faenza, seguita ad una campagna di rilevamento architettonico e di raccolta archivistica, costituisce pertanto il momento di verifica del rapporto tra cultura tecnica e prassi progettuale e costruttiva, attraverso il quale è possibile riconoscere i valori tipologici e semantici dell'architettura. Progettato e costruito dai capomastri Raffaele e Giovanbattista Campidori alla metà del '700, l'ospedale viene analizzato fino ai nostri giorni nelle sue varie fasi di trasformazione, proponendosi di offrire metodi e strumenti di indagine finalizzati alla messa a punto di interventi di recupero e conservazione della parte edificata antica.
Carlo Biagini, ingeniere, e ricercatore presso il Dipartimento di Ingegneria Civile dell'Università degli Studi di Firenze dove insegna Disegno dell'Architettura e Tecniche della Rappresentazione. Svolge attività di ricerca nel campo del rilievo, recupero e conservazione dell'architettura storica e moderna, e si occupa del rapporto tra disegno e processo progettuale e costruttivo. Fra le sue pubblicazioni ricordiamo: Il disegno tra idea e costruzione (Firenze, 1998), Information Technology e automazione del progetto (Firenze 202), Il disegno degli ingegneri ferroviari tra '800 e '900 (in "Il Disegno di Architettura", 30, 2005) e I tracciamenti e le operazioni di misura, in Manuale di Ingegneria Civile (Bologna, 2007).


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