Amarcord romagnolo, dall'antichità al giorno d'oggi, storia delle malattie contaggiose |
"Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita" - Dino Campana, Canti Orfici. |
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AMARCORD ROMAGNOLO, DALL'ANTICHITÀ AL GIORNO D'OGGI,
STORIA DELLE MALATTIE CONTAGIOSE Sandro Bassi Per quanto il Nuovo Coronavirus
sia - lo dice la parola stessa – inedito e sconosciuto, le malattie
epidemiche sono vecchie come l’uomo e ne costellano la storia antica e
recente. A metter ordine a livello locale in questo complesso e, ahi
noi, ricchissimo argomento fu trent’anni fa un medico faentino, Antonio
Ferlini, che condensò anni di ricerche (e anche di esperienze poiché
aveva sempre lavorato come infettivologo nell’Ospedale civile) in un
ponderoso volume di ben 545 pagine: «Pestilenze nei secoli a Faenza e
nelle valli del Lamone e del Senio» (Tip. Faentina Ed.,1990). Il volume,
diviso in due parti, prende in esame 1500 anni di storia, da
Giustiniano ad oggi (interamente a cura dello stesso Ferlini) e poi
undici argomenti a cura di altrettanti specialisti fra storici, medici
e ricercatori. Precisando che è ancora reperibile in qualche libreria,
in mercatini (a prezzo irrisorio!) e nelle principali biblioteche del
territorio, cerchiamo di trarre da quelle pagine un’utile sintesi,
poiché se dalla peste di Giustiniano è cambiato tutto e se, com’è
ovvio, la lebbra e la peste non furono paragonabili al Covid-19, pure,
anche in questo caso, bisogna constatare come la storia si ripeta e sia
maestra - incredibilmente inascoltata - di insegnamenti. Non solo
perché fornisce lezioni, ma perché dimostra come gli atteggiamenti
delle autorità e della società in genere si siano ripresentati analoghi
nei secoli, con sconcertante puntualità. Al netto delle conquiste
civili - per cui ad esempio non sono tornate e non torneranno le pene
di morte comminate brutalmente a Faenza e dintorni in occasione della
peste del 1630 - e al netto degli ovvi cambiamenti della società - che
per fortuna non lincia più i presunti «untori» anche se magari continua
a farlo mediaticamente – si trovano, leggendo questo libro,
sorprendenti denominatori in comune con l’infezione del 2020: tendenza
delle autorità a sottovalutare il problema, almeno inizialmente, prima
negandolo e poi minimizzandolo, e della società a reagire con un misto
di fatalismo e sgomento, talvolta sfociante in panico, di parossistico
egoismo e di ricerca di un capro espiatorio (qualcuno etnicamente o
geograficamente o culturalmente «diverso», meglio se con tutti e tre i
requisiti).
Sia come sia, saltando la non
meglio precisata «pestilenza» di Forlì del 1054, quando i faentini
corsero in aiuto, non per magnanimità bensì in funzione anti-ravennate
è una «peste» che interessa la Romagna (ma non sappiamo dove) nel 1135
e Ravenna nel 1180, arriviamo alla lunga epidemia di lebbra del
XII-XIII secolo e seguenti (a Faenza non oltre il XV sec. ma in altri
luoghi dell’Emilia Romagna fino al 1550). Gli estremi cronologici sono
quantomai incerti e peraltro la lebbra, malattia incurabile (allora),
non mortale ma deturpante e socialmente molto emarginante, pare fosse
comparsa già nel 1040. Comincerà a ridursi a partire dal 1250 per
lasciare il posto nel 1348 alla peste bubbonica che ad esempio a Faenza
uccide l’intera comunità dei lebbrosi o buona parte di essa. Ma andiamo
con ordine. Descritta fin dall’antichità e portata per la prima volta
in Italia nel 61 a.C. dalle legioni di Pompeo di ritorno dall’Egitto,
la lebbra conosce una recrudescenza con le Crociate e con il passaggio
dei pellegrini provenienti dalla Terra Santa. È questo il motivo per
cui le varie città italiane si dotano di lazzaretti, cioè lebbrosari
per la degenza cronica o per la quarantena coatta, che sorgono a
sud-est (la direzione da cui arrivano i pellegrini) degli abitati e a
distanza di sicurezza, generalmente sui 3 km. A Faenza c’è San Lazzaro
della Cosina, menzionato per la prima volta nel 1206 (e forse risalente
a venti, trent’anni prima), ma a Rimini un San Lazzaro al Terzo era già
sorto da qualche decennio e da oltre un secolo ce n’erano due simili a
Fidenza e a Piacenza, città pellegrine per antonomasia. Anche Imola,
Forlì e Cesena avevano il loro lazzaretto e tutti conoscono San Lazzaro
di Savena, 6 km prima della già grande Bologna, ma in pratica tutte le
città sulla via Emilia si erano attrezzate in tal senso. Come?
Costruendo edifici, con una chiesa, un hospitale presidiato da guardie
che intercettavano i pellegrini, e un’adiacente casa dove i lebbrosi
riconosciuti tali, e cronici, si adattavano a rimanere. Costoro
venivano dichiarati «morti alla società», con lugubri cerimonie che ne
sancivano la discriminazione perpetua.
Ma veniamo all’incubo del 1348,
cioè la peste nera che a livello nazionale, complice Boccaccio, è assai
nota. Gli antefatti sono altrettanto famosi: una flotta di dodici galee
genovesi, proveniente dalla fortezza di Caffa sul Mar Nero, è sbarcata
nel settembre dell’anno prima a Marsiglia, che ha rispettato l’atavico
diritto del mare non negando (come invece ha fatto la madrepatria
Genova) la richiesta di sbarco. Più realisticamente, la città
provenzale forse non sa che le dodici navi sono piene di moribondi,
tutti soldati vittime di una «guerra batteriologica» - non la prima
della storia e certo non l’ultima - scatenata dai Mongoli che hanno
catapultato cadaveri di appestati dentro la fortezza maledetta. I
Mongoli assedianti appaiono ai nostri occhi di oggi bestie senza pietà,
ma bisogna dire che i Genovesi, da tempo, razziavano le terre asiatiche
soprattutto per procurarsi bambini da vendere come schiavi. La vendetta
mongola è spaventosa perché la peste farà in due anni oltre trenta
milioni di morti in tutt’Europa. Dopo aver ucciso oltre il 60% dei
marsigliesi la malattia si diffonde, in media 70 km al giorno, anche a
causa della pulce del ratto che si è adattata a viaggiare con i
vestiti, le farine, le merci. Il contatto uomo-uomo fa il resto e oltre
che dalla Francia il contagio si propaga dalla Sicilia perché la flotta
ha fatto scalo a Messina; il morbo dilaga ovunque (con alcune
eccezioni, ad esempio Milano che arriva a barricare le case dei primi
appestati facendoli morire all’interno). Firenze, già provata da grave
crisi economica accompagnata a carestie, si riduce ad una città
spettrale, ma lungo la via Emilia, il 20 giugno 1348, il flagello di
Dio giunge anche a Faenza. Durerà, secondo vari cronisti, un anno
intero (per il Tonducci non oltre il dicembre ‘48) con il nome di
«gangola» che è una corruzione dialettale di «ghiandola» perché si
manifesta con bubboni all’inguine o nel cavo ascellare.
Cosa accada di preciso a Faenza
non sappiamo. Non è neppure chiaro il numero dei morti (non sempre
vengono registrati), anche se la stima si aggira sul 50% degli
abitanti, dato verosimile se paragonato a quello di città vicine,
ad esempio Rimini dove raggiunge il 60%. Ferlini riferisce che i medici
in città sono tre, almeno a giudicare dalla scomparsa lapide di San
Domenico che li cita per nome; il loro numero appare scarso ma poco
inferiore alla media visto che a Milano sono 28 e a Firenze 60; un
probabile,macabro ricordo di quell’epidemia è tuttora presente nella
Villa Pasi, oggi Tabanelli, in un cordolo di pietra dove è incisa la
vicenda di una madre che adempì ad un voto, donando ai poveri 50 lire
(prezzo di un podere di media grandezza) poiché aveva dovuto seppellire
«solo due figli»
In seguito la peste tornerà,
con cadenza pressoché decennale (ma assai attenuata per via
dell’immunizzazione naturale che la popolazione ha acquisito),
accompagnandosi all’influenza «di freddo» citata per la prima volta nel
1357. Le due epidemie si alternano per tutto il XV secolo,
presentandosi anche a Forlì, Imola e a Ravenna (più isolata da un punto
di vista stradale ma esposta ai traffici marittimi). Dal 1505 compaiono
tifo petecchiale (veicolato dai pidocchi, per cui prende il nome di
«malattia dei vagabondi») e poi bissa bova (influenza con complicazioni
polmonari) e morbo gallico (sifilide), unico contraccambio – e neanche
sicuro visto che qualche studio lo dice latente da tempo in Europa -
degli indios americani ai vari vaiolo, morbillo, ecc. con cui li
abbiamo sterminati.
LE PESTI DEL ‘500 E ‘600 Lo spazio tiranno ci impone di
volgere al termine, ma non prima d’aver detto che Faenza venne
risparmiata dalla feroce peste «di San Carlo» del 1578 e da quella di
Manzoni del 1630. Per quest’ultima è sicuro che buona parte del
«merito» vada a monsignor Gasparo Mattei, inviato da Roma con pieni
poteri e che stese intorno alla città un cordone sanitario fatto di
forche a cui impiccò guardie distratte o corrotte ma anche poveri
cristi che per sfamare i figli si erano procurati pane proveniente da
fuori. Si salvò anche Modigliana (che lo ricorda con la lapide sulla
Madonna del Cantone) per la quale Faenza fece barriera impedendo la
penetrazione del morbo nella valle del Marzeno, mentre dovettero
soccombere, con morti su morti, Lugo, Bagnacavallo, Cotignola,
Solarolo, Imola, Castelbolognese e Cesena.
Sfuggita più o meno
miracolosamente alla prima ondata di colera del 1835 che arriva
all’Emilia, la Romagna intera viene flagellata vent’anni dopo da questa
malattia causata da un vibrione che si trasmette da uomo a uomo
attraverso l’acqua infettata da deiezioni. A Faenza i gabinetti sono a
dispersione nei cosiddetti «pozzi neri» ma, mancando l’acquedotto (che
arriverà solo a fine secolo), una parte dei cittadini beve l’acqua dei
pozzi freatici - quelli nei normali cortili - che raggiungono soltanto
la prima falda, non protetta, dove spesso finiscono le acque nere. E’
una strage; chi può permetterselo fugge, come il pittore Romolo
Liverani che la sfanga non perché sia ricco, tutt’altro, ma perché
riesce a farsi ospitare dai conti Gessi di Sarna che lo fanno lavorare
come decoratore nell’omonima villa e nella non lontana chiesa di
Marzeno, dove le sue tempere sono conservate ancor oggi.
delle biblioteche casalinghe. |
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