L'occupazione Veneta a Faenza (1503 - 1509)

"Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita" - Dino Campana, Canti Orfici.
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 L'occupazione veneta a Faenza (1503 - 1509)

di Luigi Solaroli


Venezia voleva che tutto l’Adriatico fosse considerato come un grande «golfo» di supporto a Venezia. Per ottenere questo dominio era necessario assicurarsi le coste della Romagna e per questo motivo il 26 febbraio del 1441 Venezia occupò Ravenna e Cervia. Uno dei motivi fondanti per l’occupazione della Romagna era di assicurarsi un paese ricco di grani e soldati, oltre a limitare le mire espansionistiche di Firenze già penetrata alle spalle di Forlì e nella val Lamone. Faenza nel frattempo è assediata da Cesare Borgia, detto il Valentino, figlio del papa Alessandro VI, e il 25 Aprile del 1501 entra in città. Il popolo faentino vede con tristezza, uscire dalla città il giovane e infelice signore Astorgio III Manfredi accompagnato dal fratellastro Giovanni Evangelista per non farvi più ritorno. Il 18 Agosto del 1503 muore il Papa e pure il Valentino è grave. Venezia vede in questo quadro l’opportunità di occupare i territori conquistati dal Valentino e abbandonati a se stessi. Uno per volta cadono le terre dalle Marche alla Romagna. Faenza, vistasi praticamente libera, si divise in due fazioni: chi voleva i veneziani e chi chiedeva il ritorno dei Manfredi che erano rappresentati da un bastardo, Franceschetto, figlio naturale di Galeotto che si trovava a Bologna.



Espansione di Venezia sulla Terraferma fino alla battaglia di Agnadello (1509). Ogni acquisizione è seguita con la data definitiva.
      Firenze ovviamente, colse l’occasione per appoggiare il partito dei Manfredi nel tentativo di chiudere le porte ai veneziani, così Franceschetto Manfredi, scortato da soldati fiorentini se ne venne da Bologna a Modigliana che era sotto il controllo di Firenze. Più volte Franceschetto raggiungeva Faenza per sostenere il suo partito e con l’intento di sollevare il popolo ma senza buoni risultati. Intanto il governatore lasciato dal Valentino, favoriva il partito manfrediano e fece chiudere le porte verso Forlì, murò porta Ravegnana e Imolese più a rischio in caso d’invasione veneta. Lasciò libera solo porta Montanara da dove, presumibilmente, dovevano arrivare le truppe fiorentine in appoggio al Manfredi. Tuttavia la parte il partito Manfredo, forte della presenza dei notabili più in vista, ebbe il sopravvento e così il 25 Ottobre del 1503, Franceschetto entrò in Faenza scortato dalle milizie fiorentine. Il popolo era ancora incline al nome dell’antica signoria e acclamò il giovane signore di Faenza col nome di Astorgio IV a ricordo dello sventurato vittima della crudeltà dei Borgia. Intanto a Roma morì il Papa succeduto al Borgia, Pio III e la Romagna ancora in balia di se stessa.


Dionisio di Naldo.
     Venezia decise di non indugiare oltre sollecitata dal partito a loro favorevole. I veneziani, aiutati da Dionisio di Naldo, che controllava gli armigeri della val Lamone e da sempre acerrimo nemico dei Manfredi, s’impadronirono della vallata per bloccare un’eventuale avanzata dei fiorentini. Comprarono il castellano di Brisighella, tale Tristano da Ozzano, entrando in paese senza colpo ferire al grido del popolo “…Marco, Marco…”, così la sorte di Faenza fu segnata. A Ravenna si era insediato il governatore veneto Cristoforo Moro che inviò subito un contingente militare a Russi per rafforzare la presenza veneta a Brisighella e val Lamone ed essere pronto al balzo su Faenza. La nostra rocca aveva un presidio composto di valligiani che avevano combattuto a fianco del Valentino, comandati dal castellano Ramiro Spagnuolo. Costui, nonostante le reiterate richieste dei faentini di cedere la rocca ad Astorgio IV, si oppose sempre per fedeltà ai Borgia e per ostilità ai Manfredi, ma saputo poi che la valle era in mano ai veneti, e nessun aiuto poteva venire da Firenze, si accordò con Dionisio tramite il famoso «beverazo» (somma di denaro) per far entrare di nascosto nella rocca Cristoforo Moro con 300 fanti veneziani. Ma qualcuno si accorse del fatto e i pochi armigeri di Astorgio IV tentarono di ostacolare l’ingresso, ma fu tutto inutile. Il Metelli ci racconta lo sdegno di Faenza “….alla vista dello inalberato vessillo…” con l’insegna del leone di s. Marco. Ma Faenza si sdegnò ancor più quando dall’Osservanza i valligiani, insieme ai balestrieri veneziani “… gettarono palle con l’artiglieria dentro la città…” L’astio dei faentini verso i valligiani era dovuto anche dal rifiuto di costoro a non riconoscere l’autorità di Astorgio IV quale signore della valle. Nonostante tutto i faentini non disperarono. I veneziani erano asserragliati entro la rocca con 300 fanti e qualche compagnia che si trovava all’Osservanza, il grosso dell’esercito veneto era occupato a conquistare Rimini. Nei "Diarii" di Marin Sanuto(1), in data 9 Novembre del 1503, troviamo una relazione fatta da Cristoforo Moro alla Signoria veneta sull’assedio di Faenza. Egli comunicava di aver arruolato 800 fanti e che per occupare Faenza occorrevano 6000 fanti e 2500 uomini di fatica. Il Moro aveva preso contatto col faentino Gabriele Calderoni che aveva promesso di far entrare in città i suoi contadini insieme a quelli degli altri faentini favorevoli ai veneziani..

     Costoro avrebbero provocato un gran tumulto in un punto opposto a porta Montanara in modo di impegnare gli armati del Manfredi
. Attraverso la porta, unica non murata, sarebbero entrate le truppe venete. Il piano fu approvato dalla signoria. Intanto in Faenza, per impedire che il partito favorevole ai veneziani trovasse nuovi aderenti, fu nominato un corpo di 100 uomini che aveva l’incarico di far decapitare tutti coloro che si dichiaravano amici della repubblica. Ma già il 10 Novembre, Faenza cinta d’assedio, era mal ridotta per penuria di vettovagliamenti e di notte faceva con fuochi segnali di soccorso ai fiorentini.


     Costoro tentarono alcune volte d’aiutare Faenza, ma con la consistenza di pochi fanti era facilmente annientata dai veneti che attenti, agivano in anticipo nelle zone d’ingresso al territorio. Firenze solitamente raggiungeva i territori faentini attraverso la valle del Montone per affacciarsi nella zona di Oriolo, ma i veneti rafforzarono militarmente tale insediamento. Le condizioni di Faenza si facevano sempre più disperate, le vettovaglie mancavano, le armi pure e gli aiuti promessi dai fiorentini e dal Papa non se ne ebbe notizia, intanto il numero degli assalitori aumentava. I faentini tentarono vari approcci con i veneti per conoscere le condizioni di un’eventuale resa al fine di prendere tempo sperando negli aiuti promessi, ma i veneti prevedendo tali intenzioni, non diedero tempo per decidere spinti anche dal fatto che la loro artiglieria aveva nel frattempo abbattuto un tratto di mura. Viste le pessime condizioni in cui versava la città, il tratto di mura abbattuto, si decise di aprire le porte ai dominatori. Il 19 Novembre del 1503, i messi faentini giunsero nel campo veneto dichiarando la resa e avanzando condizioni che furono accolte dai provveditori veneti.

     Fra le condizioni vi era la salvaguardia e il mantenimento dei Manfredi. I veneti accettarono ma nei loro territori per il timore che la loro presenza a Faenza potesse far rinascere rigurgiti d’indipendenza. Il medesimo giorno Astorgio IV e il suo seguito furono scortati da 25 balestrieri fino a Ravenna per poi andare in esilio a Venezia. E questo fu l’ultimo atto della nobile famiglia sotto la cui guida Faenza ha vissuto periodi di benessere, di passione e di lotta.

      Dalla descrizione del Sanuto sembra che i veneziani siano stati accolti come veri liberatori, comunque, quando squadronati i veneti entrarono in città, la folla “…con gran letizia e giubilo li accolse al grido …Marco, Marco…”. Senz’altro i faentini fecero di necessità virtù. I Provveditori per prima fecero presidiare le porte specie quella del Borgo dato che la val Lamone era ben protetta dai valligiani di Dionisio, nella rocca vi era un presidio di 60 fanti e 405 all’interno della città.
Fu subito convocato il Consiglio generale di cui Francesco Giangrandi pronunciò l’orazione di omaggio alla Repubblica. Parlarono anche i Provveditori enumerando i vantaggi che la dominazione veneta avrebbe portato ai faentini.

Una pagina de i "Diarii" di Marin Sanuto.
  Continua il Sanuto che “… fu così dolce e chiaro il discorso che molti piangevano…e l’assemblea si sciolse al grido di …Marco, Marco”. Così ebbe inizio la dominazione veneta a Faenza che durò fino a Maggio del 1509, ma tale dominio fu avvertita dai faentini come una ventata di libertà e saggezza. Affinchè la città non incorresse nella censura, Venezia pagò i tributi allo Stato Pontificio; dispose che le persone e i loro beni fossero salvi e tutelati; permise che gli Statuti e i Regolamenti venissero aggiornati secondo le nuove esigenze; ordinò che gli Anziani e il Consiglio Generale fossero mantenuti in vita; abolì dazi e gabelle sui prodotti più in uso provenienti da fuori; dispose che i benefici ecclesiastici fossero conferiti ai faentini e che i beni mobili, sequestrati ai Manfredi dal Valentino, fossero restituiti e donati al Monte di Pietà. Da parte sua Venezia si limitò a mandare un rappresentante e poche milizie a proprie spese; il primo governatore fu il patrizio veneto Pietro Marcello, uomo saggio e lungimirante che diede alla città un buon governo. La situazione politica-militare del momento invitava la Serenissima più alla conciliazione che al rigore, difatti le richieste fatte dalla città, furono accolte quasi totalmente.



Note
1) Marin Sanudo conosciuto anche col nome italianizzato di Marino Sanuto il giovane - Letterato veneziano (Venezia 1466 - ivi 1536), dei Sanudo di San Giacomo dell'Orio. Fin dalla giovinezza attese a studi classici ed eruditi; di questo suo interesse sono testimonianza, oltre ad una preziosa raccolta di manoscritti, libri rari, disegni e quadri, numerose opere, tra le quali sono degne di nota l'Itinerario per la terraferma veneta (1483), i Commentarj della guerra di Ferrara (1484), il De origine situ et magistratibus urbis Venetae (1493), La spedizione di Carlo VIII (1495), le Vite dei dogi (cui attese probabilmente fino al 1530). Il suo nome è legato soprattutto ai 58 volumi dei Diarî (dal 1º genn. 1496 al sett. 1533), che S. lasciò al Consiglio dei Dieci e che furono pubblicati tra il 1879 e il 1903. Comprendenti anche lettere e documenti originali, essi costituiscono una schietta e inestimabile rappresentazione della sua età. Svolse pure attività politica (dopo il 1498), ma senza fortuna, a motivo del suo carattere austero e orgoglioso. (Enciclopedie on line Treccani).

 

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