La Campagna d'Italia e la conquista di Faenza
di Beppe Emiliani
Scopo della campagna d’Italia è innanzitutto il saccheggio, onde
rimpinguare le casse francesi, mantenere l’esercito, e con l’occasione
arricchire le collezioni dei musei di Parigi. Le province
conquistate sarebbero poi tornate utili come merce di scambio nelle
trattative con l’Austria. Nel 1796 Napoleone quindi invade l’Italia,
con queste parole si rivolge ai suoi 44.000 uomini, quasi tutti scalzi
e mal nutriti: «Io voglio condurvi nelle più fertili pianure del mondo.
Ricche province, grandi città verranno in vostro potere, voi vi
troverete onori, gloria, ricchezze» Subito Napoleone punta le armi
contro lo Stato Pontificio, costringendo il pontefice all’umiliante
armistizio di Bologna. Le condizioni sono pesantissime, Pio VI deve
cedere Bologna, Ferrara e Ancona. Il pontefice deve anche riparare
(finanziariamente) le “offese” sostenute dai sudditi francesi nei suoi
Stati. Tutti i prigionieri politici, cioè i giacobini, devono essere
liberati. I porti dello Stato pontificio interdetti alle navi delle
potenze ostili alla repubblica francese, e aperti alle navi di
quest’ultima. I commissari francesi avrebbero scelto, nella città di
Roma, cento dipinti, busti, vasi e statue, più cinquecento manoscritti
antichi. Una somma spropositata sarebbe stata versata in lingotti d’oro
e d’argento, il resto in derrate: merci, cavalli e buoi. Le truppe
francesi avrebbero avuto libero passaggio nei territori della Chiesa e
rifornite di viveri durante l’intero percorso. Il 23 giugno 1796 è
pattuita una tregua, Bonaparte sgombera Faenza e restituisce Ravenna,
ma rimane in possesso delle Legazioni di Ferrara e Bologna,
riservandosi il diritto di presidiare Ancona.
Vignetta satirica sulle spoliazioni napoleoniche dei beni culturali.
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La caccia ai giacobini
La corte di Roma, "uditi i vantaggi degli Austriaci sul Reno
conseguiti, e l’accrescimento delle forze imperiali verso l’Italia, che
davano risoluti segni di voler recuperare gli Italiani possedimenti,
comincia a detestare gli umilianti articoli della tregua come nei
giorni dello spavento li aveva prudentemente ricevuti".In settembre il
governo del Papa apprende di "un tradimento tramato dai francesi" e
rompe le trattative di pace in corso con Parigi a Firenze, cercando di
"stabilire a Vienna un trattato di alleanza". Napoleone minaccia:
"Infelici Ravenna, Faenza, Rimini". Dal 2 agosto è a Rimini presso gli
Olivetani di Scolca, al colle di Covignano, il Legato Dugnani. Vi
resterà sino all’11 novembre.Il 28 settembre il Pontefice chiama a
raccolta i sudditi "per la difesa del suo Stato dall’aggressione de’
Francesi". Si rinnovano gli avvisi di preparazione alla resistenza.
Sono fallite le trattative con Parigi, dove Pio VI ha inutilmente
inviato un suo rappresentante, l’abate Pieracchi, con un "breve" che
invita i francesi a riconoscere le autorità costituite. Il direttorio
pretende di più: la revoca di tutti gli interventi del Papa nelle
questioni francesi dopo il 1789 e, quindi, anche la sconfessione della
condanna della Costituzione civile del clero. In un secondo momento, a
Firenze, la stessa richiesta francese porta al medesimo risultato di
rottura, ed allo spostamento dell’asse politico romano verso
quell’Austria che, tempo prima, sotto Giuseppe II non aveva mancato di
procurare dispiaceri al pontefice, con la dottrina della superiorità
dello Stato nei confronti della Chiesa. L’8 ottobre il Senato di
Bologna dichiara che né la città né il suo territorio appartengono più
allo Stato ecclesiastico. Il giorno successivo in tutte le chiese
riminesi viene letto il bando per gli arruolamenti volontari, con
quartier generale a Forlì. La paga è venti bajocchi al dì; per quelli
che vanno a cavallo, altri cinque in aggiunta. Il 12 il cardinale
Chiaramonti fugge da Imola "per timore di rimanere catturato nelle mani
de’ Francesi". Il 14 cominciano a transitare per Rimini i dragoni
pontifici diretti a Faenza. È una processione che si ripeterà. Il 16
ottobre, per volontà di Napoleone, si riunisce a Modena un congresso
con i rappresentanti di Bologna, Ferrara, Modena e Reggio, deliberando
la fondazione della Confederazione Cispadana. Il congresso il 17
ottobre emana l’invito ai popoli della Romagna di unirsi ai
repubblicani e di aderire alla Confederazione. I papalini, esaltando il
governo della Chiesa come ispirato alla libertà, rispondono ai
rappresentanti del congresso: "Noi ambiamo il suffragio vostro: noi
dispregiamo quello dei vostri Oppressori". Cioè, dei francesi. Il 18
ottobre Pio VI "per li nuovi sospetti o minacce dell’armi francesi allo
Stato Pontificio", ordina "guerra difensiva ai suoi sudditi". A Bologna
si pianta l’Albero della Libertà e s’incendia una caserma dei birri.Da
Forlì è iniziata il 16 ottobre in tutta la Romagna la cattura dei
giacobini, trasferiti a Rimini il 18 e di lì nel forte di San Leo il
19. Da Faenza arrivano il conte Achille Laderchi, il suo cameriere
Andrea Pasi, il notaio Antonio Placci cancelliere della Comunità,
Vincenzo Bonazzoli segretario della Comunità, l’architetto cavalier
Giuseppe Pistocchi, il gentiluomo Michele Pasi, il commerciante in
cappelli Ercole Mamini, il sacerdote Domenico Brunetti, maestro di
calligrafia e Vincenzo Bertoni proprietario di una cartiera. La
repressione colpisce intellettuali, professionisti e parecchi nobili
che avevano visto nell’arrivo dei francesi un "tramite, magari
doloroso, verso la formazione di una diversa classe dirigente
finalmente laica ed estranea alle commistioni fra il temporale e lo
spirituale" .
La Battaglia del Senio
Dal quartier generale di Bologna Bonaparte annuncia con un proclama la
sua entrata negli Stati Pontifici e minaccia di ferro e fuoco le città,
i paesi e i villaggi che non avessero suonato le campane a martello
all’avvicinarsi dei francesi. In mattinata si sparge la voce che i
francesi sono a Castel Bolognese. Le truppe pontificie comandate dal
colonnello barone Carlo Ancajani, si pongono in marcia accompagnate dal
popolo; due ore dopo tornano indietro poiché si trattava di un falso
allarme.
Divise dei soldati napoleonici partecipanti alla Campagna d'Italia.
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Alle
nove di sera un messaggero porta la notizia che i francesi sono a
Imola; si raduna nuovamente la truppa, si portano due cannoni fuori
porta Montanara, uno fuori di porta Pia ed un altro fuori porta
Ravegnana. Preti e frati eccitano gli animi alla battaglia predicando
che i francesi hanno cannoni di legno, li descrivono come indemoniati e
vandali distruttori di altari. I volontari faentini si armano come
possono; in piazza tale Vincenzo Savorelli distribuisce lance di ferro,
armi da fuoco e da taglio, raccolte dai trofei di palazzo Zauli Naldi.
Alla testa dei volontari si mettono don Meloni, segretario del vescovo,
don Tassinari, Pietro Gasparetti, l’argentiere Nicolò Giordani e il
ceramista Domenica Missiroli. Quest’armata improvvisata si pone al
fianco dei regolari pontifici composti di 3000 fanti, 150 cavalleggeri
e 10 pezzi d’artiglieria. I regolari pontifici sono al comando dello
spoletino barone Ancajani e dei capitani Copioni, Cosmi, Boschi e
Naldi. Il castellano Agostino Costa guida le milizie della Rocca. Il
Tomba così descrive i soldati pontifici: in calzette e scarpe con
fibbie d’argento, recando orologi alla cintura, ed anelli alle dita.
Altre truppe pontificie giungono da Forlì guidate dal maggiore conte
Francesco Biancoli di Bagnacavallo.Giunte al Senio le truppe pontificie
e i volontari faentini si predispongono nel campo trincerato che era
stato preparato sulla destra del fiume vicino al ponte. Durante la
notte si sparge la voce che i francesi sono troppo superiori di numero
ed il consiglio degli ufficiali discute se non sia meglio
ripiegare
subito, poi, sempre secondo il Tomba: “l’opinione prevalse di mostrare
il viso prima di volger le spalle, confidando che quell’apparato
avrebbe potuto anche mettere il nemico in pensieri, e fargli cangiar di
proposito”. La voce delle incertezze degli ufficiali si sparge
rapidamente fra i soldati ed i volontari, sempre secondo il Tomba:
“occuparono i luoghi più acconci alla fuga che alla resistenza.” Alcuni
disertano. Le truppe pontificie hanno disposto tre cannoni sulla destra
e tre sulla sinistra del ponte puntati su di esso ed altri quattro
contro l’altra riva del fiume. Le truppe armate alla leggera si
dispongono in una trincea scavata alla sinistra del ponte e riparata da
un ciglione di terra. Le compagnie di linea in altre due trincee e,
dietro loro si schiera la cavalleria. L’armata francese, composta di
cinque legioni di fanteria, due di cavalleria, tre battaglioni Lombardi
e tre di Cispadani, avanza comandata dal generale Victor divisa in tre
colonne. |
Il Generale Victor.
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L’avanguardia, comandata dal generale Lannes, e la seconda colonna del
generale La Salcette, avanzano lungo la strada, la terza con a capo il
generale Fiorella, lungo i colli per prendere i pontifici alle spalle.
Prima di iniziare l’attacco il generale Victor invia all’Ancajani un
ufficiale per chiedere di sgombrare la strada, l’Ancajani rifiuta. Le
truppe che avanzano lungo la via Emilia si fermano fuori tiro dei
pontifici e un reggimento di cavalleria comandato da Junot si prepara
all’attacco del ponte, mentre Lombardi, Cispadani e Cisalpini, avanzano
a ranghi serrati fino al fiume, sotto le trincee pontificie, ove si
fermano per dare tempo a La Salcette di completare l’accerchiamento del
nemico. I pontifici, interpretando sia la richiesta di resa avanzata
dai francesi che la immobilità dei Lombardi come frutto di paura e
aprono il fuoco contro questi ultimi ferendone molti.
Un drappello di cavalleria francese tenta all’improvviso di forzare il
ponte, ma i cannoni pontifici spazzano i cavalleggeri; tocca ora ai
Lombardi, al loro battesimo del fuoco, tentare di guadare il Senio.
Nonostante il fitto fuoco al quale sono esposti essi conquistano la
sponda opposta, subito un battaglione francese sfila sulla loro
sinistra e assale i pontifici sul fianco destro, mentre i granatieri
lombardi avanzano sul ponte al centro del quale i pontifici hanno posto
un cannone. Due compagnie di polacchi e due di lombardi corrono di
rincalzo al ponte, mentre una di lombardi va a rinforzare la testa di
ponte oltre il Senio.I pontifici che si trovano a monte, compreso il
tentativo francese di circondarli, si ritirano verso le colline. Mentre
ormai i francesi stanno dilagando, improvvisamente i cannoni pontifici
smettono di spazzare il ponte e colpiscono le cime degli alberi.
Sospettando un tradimento, la cavalleria pontificia fugge seguita
subito dal colonnello Ancajani e dagli ufficiali dello stato maggiore;
anche il faentino Carlo Carroli, al quale l’Ancajani aveva affidato il
comando prima della fuga, segue i suoi superiori nella fuga precipitosa
verso Faenza. Vedendo scappare gli ufficiali, le truppe si sbandano
immediatamente e li seguono abbandonando carriaggi, armi e munizioni
sul campo di battaglia.
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2 febbraio 1797 la Battaglia di Faenza
L’Ancajani e i suoi ufficiali non interrompono la loro fuga nemmeno a
Faenza dove, senza neppure scendere da cavallo fanno chiudere Porta
Imolese e invitano il Priore a mantenere la calma fra i cittadini,
proseguono poi precipitosamente verso Forlì. I francesi trovata chiusa
la porta, l’aprono a cannonate che uccidono due civili; l’intendente di
casa Zannoni che si trovava sul portone del palazzo, e l’anziana
Geltrude Bazzotti che era sul corso di Porta Imolese. Un timido
tentativo di resistenza dei faentini fedeli al pontefice, guidati da un
certo Zaccaria Lama, effettuato con un cannone, è subito stroncato dai
francesi dopo una breve sparatoria. Le truppe lombarde intanto aprono
la Porta Pia, abbattono le porte delle case, uccidendo chiunque oppone
resistenza.
Monaldo Leopardi.
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Questa invece è la descrizione della stessa Battaglia di Faenza fatta dal padre del poeta Giacomo Leopardi.
«…Venuto a Roma il generale austriaco Colli per dirigere la difesa di
questo Stato, avrà conosciuta senza meno l’impossibilità di sostenerla
con un pugno di gente senza disciplina e senza esperienza alcuna della
guerriggine. Bravo ed onorato militare avrà parlato chiaro al Governo,
e vedendo che i suoi consigli erano male accolti, o giungevano troppo
tardi, si sarà accomodato al tempo, aspettando lo sviluppo fortuito
degli avvenimenti. Probabilmente si sperava che gli Austriaci dessero
in Lombardia bastemente da fare ai Francesi, sicché questi non si
potessero volgere alle terre della Chiesa. In ogni caso, il generale
Colli trascorse, un paio di mesi a Roma tra feste, onori e convitti.
Tutte le milizie pontificie ascendevano a circa 10.000 uomini, e un
quarto di questa gente si era radunata a poco a poco in Faenza. Imola,
perché troppo vicina a Bologna, erasi abbandonata, e la resistenza
doveva farsi sul fiume Senio, che scorre fra le due città suddette.
Il barone Carlo Ancajoni di Spoleto, comandava quell’esercito di 2.500
soldati con il grado di colonnello. Un Frate, chiamato Altieri, di non
so quale ordine, ma erudito nelle matematiche, stava là non so con
quale grado, ma con molta importanza. Inaspettatamente si sentono gli
inimici ingrossati a Bologna. Si corre al Fiume, si mettono alcuni
cannoni sul ponte, e si sta preparati alla difesa. Il giorno 2
febbraio, la mattina, i francesi attaccano forti di 10.000 uomini. I
cannoni del ponte sparano e qualche francese muore. Ben presto però
l’inimico si accinge a guadare il fiume; e vistosi dai popolani che i
Francesi non temevano di bagnarsi i piedi “Oddio” si udì gridare “Si
salvi chi può”. Tutti fuggirono per 200 miglia, né si fermarono fino a
Fuligno. Non esagero, ma racconto nudamente quei fatti che accaddero in
tempo mio. In Recanati la notizia della “Battaglia di Faenza” giunse la
sera del 4, mentre stavamo in teatro, e sparse in tutti la
costernazione e l’allarme. I giorni seguenti passarono in mestizia,
ricevendo conferme di quell’avvenimento, e aspettandone le
conseguenze…».
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Napoleone che si trova ad Imola durante la battaglia di Faenza,
giunge in città il giorno seguente 3 febbraio, prende alloggio nel
Palazzo Pasolini e scrive immediatamente al Direttorio a Parigi:
«La divisione del generale Victor ha pernottato a Imola, prima città
dello Stato Pontificio. L’armata di Sua Santità aveva abbattuto i ponti
e si era trincerata con grande cura sulle rive del Senio che aveva
disseminato di cannoni. Il generale Lannes, comandante
dell’avanguardia, appena scorse i nemici, che cominciarono a
cannoneggiarlo, ordinò ai giovani esploratori della Legione Lombarda di
attaccare i fucilieri pontifici. Il generale di brigata Lahoz,
comandante la Legione Lombarda, riunì i suoi granatieri che fece
incolonnare in ordine serrato per attaccare alla baionetta le batterie
nemiche. Questa Legione che vede il fuoco per la prima volta, si è
coperta di gloria; ha strappato 14 cannoni sotto il fuoco di
quattromila uomini trincerati. Durate la battaglia molti preti, con il
crocifisso in mano, esortavano le sfortunate truppe. Abbiamo
conquistato al nemico 14 cannoni, 8 bandiere, 1.000 prigionieri, ed
ucciso da 4 a 500 soldati. Il generale di brigata Lahoz è stato
leggermente ferito. Noi abbiamo avuto 40 uomini uccisi o feriti. Le
nostre truppe avanzarono subito a Faenza, ne trovarono le porte chiuse,
tutte le campane che suonavano a distesa ed una popolazione sbandata
che pretendeva di difenderne gli accessi. Due o tre colpi di cannone
sfondarono le porte e i nostri soldati entrarono a passo di carica. Le
nostre leggi di guerra ci autorizzavano a mettere a sacco questa città,
ma come decidere di punire così severamente tutta una città per i
crimini di qualche prete! Ho lasciati liberi 50 ufficiali che avevo
fatti prigionieri perché andassero ad illuminare i loro compatrioti ed
a far comprendere i pericoli che un simile comportamento faceva loro
correre. Ho fatto venire tutti i monaci e tutti i preti, li ho
richiamati ai principi del Vangelo, ed ho usato tutta l’influenza
che potevano avere la ragione e la necessità per impegnarli a
comportarsi bene; essi mi sono sembrati animati da buoni
principi…..».
Nascono i Rioni e la numerazione civica
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Napoleone dunque ha invitato tutti i Parroci e i Superiori dei conventi
della città a presentarsi per le ore sei di sera nel detto Palazzo. Il
tono è oltremodo autoritario:
«…S’invita il sig. Parroco di…a ritrovarsi alle ore 18 in punto in casa
Mazzolani dal generale Bonaparte, mentre si procederà in caso di
contravvenzione con tutto il rigore, verificandosi la sua esistenza in
Faenza…».
Il generale Rusca, comandante francese della Romagna, ospite di Palazzo
Zanelli, pubblica su ordine di Napoleone l’elenco dei nuovi membri
della Municipalità di Faenza: conte Annibale Mazzolani, presidente.
Conte Pietro Severoli, canonico che ha appena buttato l’abito alle
ortiche Conte Filippo Severoli, suo fratello e futuro generale
napoleonico. Conte Balasso Naldi, Giuseppe Bonazzoli, Giuseppe Toni,
Antonio rampi, Bernardo Sacchi, Giuseppe Foschini, segretario. E’
nominata inoltre una “Giunta per gli Alloggi” degli ufficiali e delle
truppe, nelle persone dei cittadini: Annibale Ginnasi, Giuseppe Zauli e
Camillo Bertoni, conosciuti come simpatizzanti delle nuove idee. Fin
dai primi giorni si riscontrano notevoli difficoltà ad indirizzare le
case e i palazzi che devono ospitare gli ufficiali e i soldati. Il
motivo è che le case private non hanno nessun segno esterno di
riconoscimento che indichi il nome del proprietario. Per questo il 4
febbraio 1897 la Municipalità incarica il conte Annibale Ginnasi,
presidente della Giunta, a presentare un Piano per numerare le case
della città. Dopo una veloce ricerca Giuseppe Zauli propone di dividere
Faenza in quattro Rioni.
La Giunta agli Alloggi intanto prosegue nei lavori con la primaria
urgenza di reperire una Pianta della città. Ne esiste una di Virgilio
Rondinini del 1630, un’altra di Pierre Mortier del 1665, una ancora di
Carlo Cesare Scaletti del 1690, ma la più recente è quella curata
dall’Istituto Albriziano di Venezia del 1762, in cui compare la Pianta
di Faenza suddivisa in quartieri colorati di Nero, Rosso, Verde e
Giallo, oltre il Borgo d’Urbecco di colore azzurrino. Il 13 giugno 1797
sono nominati i signori Giuseppe Morri e Giuseppe Pistocchi con
l’incarico di formare il primo Catasto della città. L’operazione è
terminata nel 1798 con questo risultato: nel Rione Verde esistono 392
case, nel Rosso 472, Nero 280, e nel Giallo 489.
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Pianta di Faenza realizzata dall'Istituto Albriziano
di Venezia del 1762. Colonia Esperide.
Sotto, soldati francesi attraversano un fiume.
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