Napoleone entra in Romagna, 200 anni fa la battaglia del Senio

"Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita" - Dino Campana, Canti Orfici.
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NAPOLEONE ENTRA IN ROMAGNA, 220 ANNI FA LA BATTAGLIA SUL SENIO
I papalini opposero una resistenza precaria e i francesi dilagarono fino alle Marche


da Settesere 2 febbraio 2017

Sandro Bassi

Il 2 febbraio 1797, esattamente 220 anni fa, le truppe francesi entravano in Faenza, dando inizio a quell’importante parentesi storica – coincidente con l’affermazione dell’astro napoleonico – destinata a protrarsi fino al dicembre 1813. La «battaglia del Senio», che la precedette e che si risolse in poche ore del mattino del giorno 2, fu un episodio «minore» da un punto di vista militare, ma la sua portata simbolica e politica fu immensa. Essa vide un esercito «giovane», molto ideologizzato, sotto la guida carismatica di un generale quasi sconosciuto, il ventisettenne Napoleone Bonaparte, portatore degli ideali della Rivoluzione, contrapposto ad un’armata raccogliticcia e scomposta (di soldati coscritti misti a contadini con i forconi e a preti e frati con il crocifisso) con cui il vacillante Stato Pontificio cercava di salvare se stesso e i rottami della vecchia Europa.


a sinistra,
 La battaglia di Faenza del 2 febbraio 1797.
I papalini prima della battaglia.
Disegno di Luigi Emiliani
da una  caricatura di Felice Giani.
(Faenza, Museo del Risorgimento
e dell'età contemporanea)

a destra,
La battaglia di Faenza del 2 febbraio 1797.
 I papalini all'arrivo dei franco-lombardi.
Disegno di Luigi Emiliani
da una  caricatura di Felice Giani.
(Faenza, Museo del Risorgimento
e dell'età contemporanea)


LE PREMESSE

Piuttosto, la battaglia del Senio fu si l’inizio della «parentesi» ma anche l’epilogo, ampiamente annunciato, di una fase preparatoria iniziata un anno prima, marzo 1796, e che aveva visto i francesi penetrare in Italia con manovre fulminee e subito vittoriose – a Montenotte, a Dego, a Millesimo, fra Liguria e Piemonte – fino a dilagare nella pianura lombarda con la presa di Milano del 15 maggio. Un mese dopo Napoleone e i suoi 60mila uomini erano entrati a Bologna istituendo, come a Milano, la Repubblica. La Municipalità faentina aveva già messo allora le mani avanti, inviando nel capoluogo una delegazione (con due nobili in odor di giacobinismo, i conti Francesco Zauli e Achille Laderchi) ad «omaggiare e porgere ossequi al Bonaparte», saggiandone nel contempo le intenzioni. Il 24 giugno i primi francesi erano entrati in Faenza e l’indomani la città aveva obbedito all’ordine di consegna delle armi: 94mila «pezzi» dalle armi bianche agli archibugi ai moschetti: non poco, per una città che contava allora 15mila abitanti o poco più. Nel contempo, come sempre, Napoleone aveva impostato un tributo di guerra alla tesoreria comunale, si era impossessato delle casse del Monte di Pietà e aveva intimato la consegna di ori e argenti (fino alle fibbie delle cinture o delle scarpe) detenuti dai privati cittadini.


La riproduzione del contenitore con le monete pulite.
Il 24 giugno i primi francesi erano entrati in Faenza e l’indomani la città aveva obbedito all’ordine di consegna delle armi: 94mila «pezzi» dalle armi bianche agli archibugi ai moschetti: non poco, per una città che contava allora 15mila abitanti o poco più. Nel contempo, come sempre, Napoleone aveva impostato un tributo di guerra alla tesoreria comunale, si era impossessato delle casse del Monte di Pietà e aveva intimato la consegna di ori e argenti (fino alle fibbie delle cinture o delle scarpe) detenuti dai privati cittadini. Risale a questo momento – ce lo dice la data della moneta più recente – l’occultamento del clamoroso «tesoretto faentino» di 1175 monete di vari paesi ed epoche (lo Stato Pontificio, dissestato anche da un punto di vista finanziario, consentiva la circolazione di valuta fuori corso purché intrinsecamente pregiata) rinvenuto nel 1993 nell’intercapedine di un muro di cantina, consegnato alla Soprintendenza Archeologica ed oggi esposto alla Banca di Credito Cooperativo nella sede centrale di piazza Libertà. Insomma, si era sparsa la voce che, anche in fatto di requisizioni, i francesi non scherzavano. In estate gli occupanti si erano ritirati, lasciando tuttavia il sentore che i tempi stavano comunque cambiando e che nulla sarebbe tornato come prima. La tregua consentì peraltro ai papalini il colpo di coda della repressione finale: coloro che si erano più esposti per simpatie giacobine furono arrestati e incarcerati a San Leo e furono il grande architetto Pistocchi oltre ai sopracitati Zauli e Laderchi e ad un terzo nobile liberale, il conte Filippo Severoli.



DALLA BATTAGLIA DEL SENIO ALLA FAENZA GIACOBINA

 L’1 febbraio, da Bologna, Napoleone proclama l’invasione (o la liberazione, dipende dai punti di vista) delle Romagne. A sera i francesi sono a Imola. Da Faenza si preparano i cannoni e a fianco delle truppe regolari pontificie marcia verso il Senio un drappello di volontari capitanati da due preti, di cui uno è don Meloni, segretario del Vescovo. I regolari sono circa 3mila, un po’ meno secondo Monaldo Leopardi, padre del ben più famoso Giacomo e che di fatto ci ha lasciato una gustosissima cronaca: «La resistenza doveva farsi sul fiume [Senio] che corre fra le due città sudette. (…) i Francesi attaccarono, forti di circa diecimila uomini. I cannoni del ponte spararono, e qualche francese morì. Ben presto l’inimico si accinse a guadare il fiume; e vistosi dai popolani che i Francesi non temevano di bagnarsi i piedi: “Addio”, si gridò nel campo. “Si salvi chi può” e tutti fuggirono per duecento miglia, né si fermarono sino a Fuligno. Non esagero, ma racconto nudamente quei fatti che accaddero in tempo mio, e dei quali vidi alcuna parte. Un tal Bianchi, maggiore di artiglieria, venne imputato di avere caricato i cannoni con li fagiuoli. Ho letto la sua difesa stampata, e sembra scolpato bastantemente, ma il fatto dei fagiuoli fu vero, e questa mitraglia figurò nella guerra fra il Papa e la Francia». Dopo Faenza, fu la volta di Forlì, Cesena, Rimini e Ravenna, occupate tra il 3 e il 4 febbraio senza alcuna resistenza. Il 19 febbraio, con le truppe francesi giunte fino alle marche e all’Umbria, a Tolentino fu firmato il trattato di pace con Pio VI. Di quell’infuocato periodo restano ovviamente gli studi storici e le pubblicazioni (in particolare «Napoleone in Romagna» di Remo Ragazzini, del 1997 e alcuni contemporanei articoli di Nino Drei su «settesere», in parte utilizzati fra le fonti del presente scritto). Inoltre si consiglia al Museo del Risorgimento di Faenza (Palazzo Laderchi, aperto ogni sabato e domenica), la visione di alcuni cimeli di sapore reliquiale: le palle francesi sparate dai cannoni sul Senio, poi quella che sfondò Porta Imolese rotolando, si dice, fino alla chiesa del Suffragio e prima ancora due documenti: l’appello in data 24 giugno 1796 del Priore e degli Anziani a mantenere la calma (erano appena arrivati i demoni francesi) e a non far incetta di cibi né a speculare sui prezzi, e infine il manifesto del 16 giugnoi 1797 che proclama l’elevazione di Faenza a capoluogo del Dipartimento del Lamone nella neonata Repubblica Cisalpina. Infine, sempre lo stesso museo espone le foto antiche di due famosissimi disegni caricaturiali di Felice Giani (gli originali sono andati perduti). Sull’obbiettività di Giani, giacobino fino al midollo, si potrebbe discutere, ma è incontestabile l’efficacia della sua satira nel raffigurare gli sgherri papalini che marciano non proprio impavidi, attenti ad occupare «i luoghi più acconci alla fuga che alla resistenza», seguiti da un tremante nobiluccio, in fondo, armato di ombrellino.

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