Il prete di Faenza che vide giocare gli inventori del calcio

"Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita" - Dino Campana, Canti Orfici.
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Il prete di Faenza che vide giocare gli inventori del calcio


di Giuliano Bettoli - Miro Gamberini

da: 2001 Romagna, n° 135, dicembre 2010


E’ stata Elena Minardi che per mezzo di Ermanno Bettoli ci ha passato un articolo, apparso sull’Osservatore Romano di venerdì 11 giugno scorso. La ringraziamo, perché quell’articolo ha smosso la nostra curiosità - vi era ricordata la figura di un padre gesuita vissuto a Faenza - e, alla fine, quell’articolo per noi si è trasformato in una scoperta.Crediamo che lo possa essere anche per voi.    L’articolo era firmato da Gianpaolo Romanato, ed era intitolato “Quando i guaranì inventarono il calcio”. Dopo averlo letto, incuriositi, abbiamo fatto varie ricerche e abbiamo trovato una lunga, complessa, affascinante vicenda che, almeno sinora, a Faenza non l’avevamo mai ascoltata: perciò è giusto che proviamo a raccontarvela. Aggiungiamo che, grazie a internet, siamo riusciti anche a metterci in contatto, e molto rapidamente, con l’autore dell’articolo stesso, Gianpaolo Romanato, che è professore associato di Storia contemporanea presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Padova, dove insegna anche Storia della Chiesa Moderna e Storia delle Missioni. Il professor Romanato è stato di una gentilezza unica, e ci ha fornito immediatamente un fiume di notizie. Gliene siamo veramente riconoscenti. Anzi. E’ possibile che in futuro ci càpiti di approfittare ancora di lui per ritornare sull’argomento: la storia dei Gesuiti a Faenza.


Un anonimo gesuita
La vicenda di cui vi abbiamo accennato all’inizio, ripetiamo veramente interessante, è tutta imperniata su un padre gesuita spagnolo, José Manuel Peramás, che, dopo averne passate di tutti i colori nell’America del Sud, e dopo molte altre peripezie, nel 1768 arrivò a Faenza e rimase qui da noi per venticinque anni sino al 1793, anno della sua morte. Nella nostra città pubblicò  tre importanti libri, in latino, stampati dalla tipografia Archi di Faenza. E’ stato il professor Romanato che ce ne ha precisato il numero: prima noi credevamo che fossero solo due. Come vedrete in fondo, gl’inventori del gioco del calcio sarebbero stati gli indios “Guaranì” del Paraguay (e combinazione ha voluto che proprio contro la squadra del Paraguay l’Italia abbia cominciato a fare la sua prima brutta figura delle varie brutte figure che ha fatto poi nei campionati mondiali che, nell’agosto scorso, si sono svolti in Sud Africa; quelli nei quali - lo ricordate bene - ogni partita era subissata dal pandemonio  incessante e assordante di micidiali trombette indigene, ma di plastica. Però, prima di cominciare a raccontarvi l’avventura del nostro Gesuita, sarà meglio che vi diamo un breve cenno sull’ordine religioso dei  Gesuiti e sulla loro presenza a Faenza.
 Dunque, la Compagnia di Gesù - i cui componenti sono detti appunto “Gesuiti” - fu fondata nel 1534 da Ignazio di Loyola, uno spagnolo, poi fatto santo. Un ordine religioso, i Gesuiti, che essendo composto in genere da preti di alto e altissimo livello intellettuale, e uniti fra di loro da una severa organizzazione a “falange”, era diventato molto potente col passar degli anni. E cominciò a dar fastidio a molti, specialmente ai re europei. Così il Portogallo se li cavò d’attorno tra il 1759 e il 1761, la Francia li spedì nel 1764 e la Spagna, comandata allora dall’imperatore Carlo III, li espulse nel 1767. In Italia, sempre nel 1767, li cacciarono via anche il regno di Napoli e il ducato di Parma e Piacenza. E finalmente, purtroppo, anche alla Chiesa Cattolica, volente o nolente, le toccò di sopprimere la Compagnia di Gesù. E pensare che i Gesuiti erano i “fedelissimi soldati”, sì, “gli arditi” del Papa: difatti, oltre ai consueti voti, avevano anche quello di obbedienza totale al Papa “instar ac cadaver” (cioè di obbedirgli come se, nelle sue mani, fossero persone senza una vita propria). Il “breve” di soppressione lo firmò Papa Clemente XIV (Giovanni Garganelli), uno dei “nostri”, già, un romagnolo di Sant’Arcangelo di Romagna. Siamo nel 1773. Va bene che poi, per farsi perdonare quella ingiusta operazione, un altro dei “nostri”, un romagnolo, stavolta di Cesena, Papa Pio VII (Barnaba Gregorio Chiaramonti), rimediò al malfatto: dopo 41 anni, nel 1814, ordinò che i Gesuiti rinascessero; e ci sono ancor oggi. Nel nostro dialetto - T’sì pròpi un gesuìta fêls!, cioè “Sei proprio un gesuita falso” - “gesuita” era sinonimo di “ipocrita”; e non solo nel nostro dialetto. Quasi che i Gesuiti nella loro opera si fossero ispirati più che ai dettami di Cristo a quelli di Machiavelli. Ma questo è uno di quei luoghi comuni che, purtroppo, come tanti altri che conosciamo bene, sono duri a morire.

La linea tratteggiata indica gli attuali confini di stato "Misiones" (1), cioè Sant'Ignazio Mini, fu la sede di lavoro di padre Peramas che però, insegnò a lungo anche a Cordoba (2). Quilmes (3) fu il porto di imbarco dei Gesuiti espulsi dalle colonie spagnole.

La vicenda di cui vi abbiamo accennato all’inizio, ripetiamo veramente interessante, è tutta imperniata su un padre gesuita spagnolo, José Manuel Peramás, che, dopo averne passate di tutti i colori nell’America del Sud, e dopo molte altre peripezie, nel 1768 arrivò a Faenza e rimase qui da noi per venticinque anni sino al 1793, anno della sua morte. Nella nostra città pubblicò  tre importanti libri, in latino, stampati dalla tipografia Archi di Faenza. E’ stato il professor Romanato che ce ne ha precisato il numero: prima noi credevamo che fossero solo due. Come vedrete in fondo, gl’inventori del gioco del calcio sarebbero stati gli indios “Guaranì” del Paraguay (e combinazione ha voluto che proprio contro la squadra del Paraguay l’Italia abbia cominciato a fare la sua prima brutta figura delle varie brutte figure che ha fatto poi nei campionati mondiali che, nell’agosto scorso, si sono svolti in Sud Africa; quelli nei quali - lo ricordate bene - ogni partita era subissata dal pandemonio  incessante e assordante di micidiali trombette indigene, ma di plastica. Però, prima di cominciare a raccontarvi l’avventura del nostro Gesuita, sarà meglio che vi diamo un breve cenno sull’ordine religioso dei  Gesuiti e sulla loro presenza a Faenza.  Dunque, la Compagnia di Gesù - i cui componenti sono detti appunto “Gesuiti” - fu fondata nel 1534 da Ignazio di Loyola, uno spagnolo, poi fatto santo. Un ordine religioso, i Gesuiti, che essendo composto in genere da preti di alto e altissimo livello intellettuale, e uniti fra di loro da una severa organizzazione a “falange”, era diventato molto potente col passar degli anni. E cominciò a dar fastidio a molti, specialmente ai re europei. Così il Portogallo se li cavò d’attorno tra il 1759 e il 1761, la Francia li spedì nel 1764 e la Spagna, comandata allora dall’imperatore Carlo III, li espulse nel 1767. In Italia, sempre nel 1767, li cacciarono via anche il regno di Napoli e il ducato di Parma e Piacenza. E finalmente, purtroppo, anche alla Chiesa Cattolica, volente o nolente, le toccò di sopprimere la Compagnia di Gesù. E pensare che i Gesuiti erano i “fedelissimi soldati”, sì, “gli arditi” del Papa: difatti, oltre ai consueti voti, avevano anche quello di obbedienza totale al Papa “instar ac cadaver” (cioè di obbedirgli come se, nelle sue mani, fossero persone senza una vita propria). Il “breve” di soppressione lo firmò Papa Clemente XIV (Giovanni Garganelli), uno dei “nostri”, già, un romagnolo di Sant’Arcangelo di Romagna. Siamo nel 1773. Va bene che poi, per farsi perdonare quella ingiusta operazione, un altro dei “nostri”, un romagnolo, stavolta di Cesena, Papa Pio VII (Barnaba Gregorio Chiaramonti), rimediò al malfatto: dopo 41 anni, nel 1814, ordinò che i Gesuiti rinascessero; e ci sono ancor oggi. Nel nostro dialetto - T’sì pròpi un gesuìta fêls!, cioè “Sei proprio un gesuita falso” - “gesuita” era sinonimo di “ipocrita”; e non solo nel nostro dialetto. Quasi che i Gesuiti nella loro opera si fossero ispirati più che ai dettami di Cristo a quelli di Machiavelli. Ma questo è uno di quei luoghi comuni che, purtroppo, come tanti altri che conosciamo bene, sono duri a morire.

Il frontespizio del secondo libro, scritto in latino, che padre Peramas publicò a Faenza nel 1791 presso la Tipografia Achi.

Il frontespizio del libro, sempre in latino, di padre Peramas, il cui titolo tradotto, significa "Della vita e dei costumi di tredici uomini paraguaiani". Fu stampato a Faenza nel 1793, dopo la morte del padre, sempre presso la Tipografia Archi. Da questo libro è tratta, la pagina 57, la notizia sul gioco del calcio. (Biblioteca Comunale di Forlì, Raccolta Piancastelli, Sala O, Sezione Stampatori/132)

A Faenza i Gesuiti stavano di casa nel palazzone dove adesso ci sono il Liceo Classico Torricelli e la Pinacoteca; e la loro grandiosa, monumentale chiesa era la attigua Santa Maria Nuova. Tutto quel grande e severo complesso di via Santa Maria dell’Angelo - chiesa e convento -  fu costruito a cominciare dal 1621 e ci vollero molti anni per finire i lavori. La chiesa fu eretta su disegno dell’architetto romano Girolamo Rainaldi per un generosissimo lascito di Alessandro Pasi. L’altar maggiore si deve addirittura all’intervento del famoso architetto Francesco Borromini sul progetto originario di padre Virgilio Spada. Quando i Gesuiti furono soppressi dalla Chiesa (figurarsi quale sarà stato il disorientamento, l’angoscia di quei poveri padri, traditi dal loro capo supremo, il Papa!), il loro convento di Faenza nel 1778 passò ai monaci Cistercensi, e i Gesuiti di Faenza dovettero sparpagliarsi qua e là, anche nelle case private, magari come dottissimi insegnanti. Poi, torneranno nella loro sede nel 1814, dopo la loro “risurrezione”. Ma, dopo altri 46 anni, se ne andranno per sempre. Stavolta ci penserà il Governo del Regno d’Italia, nella persona del suo re, Vittorio Emanuele II, a portar via per sempre la casa ai Gesuiti di Faenza per metterci il liceo classico. La storia, lo sappiamo, è tutto un su e giù. E i Gesuiti, dei “su e giù”, ne hanno passati più d’uno. Adesso seguiamo insieme la vita del “nostro” José Manuel Peramás, futuro faentino. Nasce il 17 marzo del 1732 vicino a Matarò, una città della Catalogna, in Spagna, a 28 chilometri da Barcellona per chi ci va dalla Francia lungo la Costa Brava. E’ una zona dove i Gesuiti in quel momento hanno un gran seguito. Il nostro José, a 13 anni, entra nel noviziato dei Gesuiti di Tarragona, quella bella città in alto sul mare (la Spagna ha molte città che sono una meraviglia). Poi studia letteratura nel grande convento di Manresa, poco lontano da Barcellona, continua gli studi di filosofia a Saragozza e li finisce all’università di Cervera. C’è ancor oggi, a Cervera, questo grande edificio barocco. Lì, Peramàs diventa professore e comincia a insegnare letteratura latina. Dicono che era di “aspetto bianco”, cioè, pensiamo, di carnagione molto chiara, che aveva la barba corta, ma gli occhi e i capelli neri. Ebbene quando il nostro padre José Manuel Peramás ha 22 anni - siamo nel 1754 - chiede di andare nelle missioni dei Gesuiti nel Paraguay, e nel febbraio 1755 arriva nell’immenso estuario di quel gran fiume che è il Rio del Plata e resta meravigliato nel visitare le due grandi e “opulente” città che si trovano sulle due sponde: Buenos Aires a sinistra e Montevideo a destra.  Qui bisogna che apriamo un’altra parentesi sulle famose Missioni “Guaranì” dei Gesuiti che qualche anno fa sono diventate popolari per un certo periodo a causa di un film di grande successo, cioè Mission con Robert De Niro.


Il famoso passo del libro, qui riportato a pagina 35, che padre Peramas ha scritto sul gioco del calcio che si praticava tra i suoi Guaranì. (Biblioteca Comunale di Forlì, Raccolta Piancastelli, Sala O, Sezione Stampatori/132).

Santa Maria Nuova. La chiesa che fu dei Gesuiti di Faenza.

Dunque guardiamo sulla cartina geografica a quel pezzo di terra che oggi si trova tra Brasile, Paraguay, Bolivia, Uruguay e Argentina. In quella zona, che era abitata dagli indios Guaranì, i Gesuiti erano arrivati nel 1609. E non solo avevano convertito tantissimi Guaranì ma, dopo averli convertiti, li avevano organizzati attorno a 30 grossi centri, detti reducciones. Cos’erano queste reducciones? Erano come delle piccole città-stato indipendenti, condotte dai Gesuiti insieme con gli indios, perfettamente organizzate, nelle quali i principi fondamentali - una sorta di comunismo cristiano basato sul Vangelo di Cristo e sulla “Repubblica” del filosofo greco Platone - erano l’uguaglianza e la comunanza dei beni: non si usava il denaro, e come mezzo di scambio adoperavano i loro prodotti: miele, mais e tabacco e via dicendo. E si accumulavano notevoli ricchezze, perché le attività agricole, pastorali e artigianali erano ingenti e gli indios si accontentavano del puro mantenimento. Tra i Gesuiti poi vi erano anche medici, architetti, agronomi ed esperti in altre materie. Le reducciones si trasformarono pian piano in vere e proprie città costruite secondo un piano urbanistico europeo, con la chiesa al centro. Vi sono oggi delle rovine imponenti, molto visitate dai turisti. In queste trenta missioni risiedevano, quasi completamente indipendenti, circa 150 mila indigeni convertiti, protetti dai loro capi contro lo sfruttamento portoghese e spagnolo. Tali missioni o riduzioni erano sottoposte comunque al padre provinciale dei Gesuiti. Una cosa del genere capite bene che non poteva durare per sempre. Mettere insieme la “mentalità della foresta” degli indios, con l’educazione religiosa dei Gesuiti e, soprattutto, con la voglia di conquista e di ricchezza dei re del Portogallo e della Spagna a lungo andare era impossibile. In più quelle terre cambiarono di proprietà: passarono dal Portogallo alla Spagna.Insomma nel 1754 ci fu già una prima rivolta sanguinosa, guidata da un Gesuita, padre Lorenzo Baida, nella quale tutta una missione combatté contro i portoghesi. L’anno dopo un altro massacro, una vera battaglia in grande stile: 3200 soldati portoghesi e spagnoli con 19 cannoni si scontrarono con 2100 Guaranì con due cannoni e con gli stendardi religiosi che i sacerdoti portavano come protezione. Più di 1500 indios morirono. Ovvio che alla fine Portogallo e Spagna si vollero cavare d’attorno per sempre i Gesuiti che, sia in Europa che nelle colonie dell’America, gli impedivano di fare i loro comodi.
Bene. Adesso torniamo a seguire padre José Manuel Peramás.

 Il “nostro” padre, giunto in Argentina, nel 1758 viene assegnato alla Reducciones di Sant’Ignacio Minì, forse la più grande di tutte: oggi i monumentali resti di quel posto sono stati dichiarati Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco. E’ un uomo di grande cultura, padre Peramás, e là i suoi superiori gli fanno fare un po’ di tutto: si dedica alla conversione dei Guaranì nella reducciones, ma deve trasferirsi spesso a Cordoba (grande città, oggi in Argentina) e lì insegna teologia presso quell’università, dove assiste anche quotidianamente i poveri carcerati e i condannati. Ma il 12 luglio del 1767, proprio quando lui è a Cordoba, i Gesuiti ricevono l’ordine di espulsione del re di Spagna e Peramás viene messo in prigione. In tutto i padri gesuiti di Cordoba sono 457. Comincia per loro una dura, tremenda odissea,  che durerà mesi e mesi. Liberati dopo 27 giorni, si fanno uno scomodo trasferimento su carri da Cordoba sino a Buenos Aires. Nel porto di Quilmes li aspettano tre navi: Peramás l’imbarcano sulla “Venere” (aggiungiamo, per curiosità, che a Quilmes hanno vissuto sino a poco fa anche alcuni faentini emigrati in Argentina attorno al 1950: per tutti ricordiamo la famiglia di Livio Balelli. Un altro gruppo di faentini e di romagnoli abitava poco lontano, a Bernàl). Quando bene o male le tre navi giungono sulle coste spagnole, gli espulsi si fermano a Cadice alcuni mesi. Dei 457 imbarcati, in Italia ne giungeranno 418: gli altri sono morti in mare, in 85 giorni di ininterrotta navigazione. A Cadice, provenienti da ogni parte dell’America, sono arrivati ben 1087 Gesuiti.
Il papa Clemente XIII e il suo segretario Torrigiani si rifiutano di accoglierli nel territorio della Chiesa! E le navi erano già ancorate nel porto di Civitavecchia. Seguono trattative diplomatiche e, finalmente, gli scomodi religiosi sono sbarcati in Corsica, allora sotto la Repubblica di Genova.

Cartina del Paraguay
La permanenza in Corsica dura sino al settembre del 1768. Intanto il governo spagnolo li illude, facendogli sperare di essere accolti in Spagna. Ma nell’agosto del 1768 è il re di Francia, Luigi XV, che diventa sovrano anche della Corsica e, quindi, espelle subito i Gesuiti spagnoli da quell’isola. Allora i soldati francesi caricano i Gesuiti e li sbarcano a Genova e a Sestri Levanti e qui, divisi in piccoli gruppi, attraversano a piedi le montagne liguri in pieno autunno, sotto le intemperie. Sono taglieggiati dagli osti, derubati spesso: tribolazioni a non finire. Specialmente il loro tabacco di ottima qualità che si erano portati dall’America del Sud, è oggetto di cupidigia e di rapina. Attraverso i ducati di Modena e Parma, giungono nelle Legazioni Pontificie. Sono diventati un bel numero, perché vi sono Gesuiti di ogni parte. Finalmente le autorità papaline decidono di assegnarli ad alcune città dell’Emilia-Romagna e delle Marche, dividendoli a seconda della provenienza. E quelli provenienti dalle province del  Paraguay e di Quito vengono smistati tra Ravenna e Faenza, mentre i Gesuiti filippini li spediscono a Lugo e a Bagnacavallo, i cileni a Imola, e quelli provenienti da Santa Fè a Forlì e Rimini. Ci siamo:  il “nostro” José Manuel Peramás è arrivato in quella che sarà la “sua” Faenza!

Il viaggio da Cordoba a Faenza è durato 15 mesi.

L’arrivo dei Gesuiti a casa nostra fu un fatto che colpì tutta Faenza. Pensate: è l’unica notizia dell’anno 1768 che lo storico faentino Messeri riporta nel suo notissimo libro Faenza nella Storia e nell’Arte scritto assieme ad Achille Calzi. Scrive infatti Messeri: “... l’arrivo di ben 400 gesuiti, in malo arnese, rifugiantisi in Faenza nel 1768 dalla procella delle riforme spagnuole di re Carlo III”. (...avremmo voluto vedere il nostro Messeri, storico faentino, se lui non si sarebbe presentato “in malo arnese”, dopo aver passato tutto quello che avevano passato quei poveri preti che tutti avevano bastonato per mesi e mesi!). Aggiungiamo che il faentino Domenico Beltrani nel suo opuscolo “I Gesuiti a Faenza”, (Società Tipografica Faentina, 1942) dice che erano 80. Cioè il numero cala di 320 unità, ma potrebbe darsi che gli 80 sia il numero dei Gesuiti che si sono stabiliti definitivamente a Faenza. Il bello è che sùbito il governatore di Faenza dice agli esterrefatti padri gesuiti di non aver ricevuto alcun ordine circa la loro ultima destinazione da parte del Legato dal quale dipende. Poi, il giorno dopo - lo hanno lasciato scritto i Gesuiti paraguaiani - “siccome ci piace la città e siccome nessun faentino ce lo impedisce, decidiamo di stabilire i nostri soldi (reales) della pensione in questa città di Faenza”.

Almeno quella volta lì noi faentini abbiamo fatto una bella figura, sì, un bel gesto di accoglienza, certo molto superiore a quello delle nostre autorità. Il racconto di questa odissea si trova in un altro importantissimo libro “Diario del destierro” - “Diario dell’Esilio” - del nostro padre Peramás, che è stato ripubblicato da poco in spagnolo. A Faenza, come abbiamo detto all’inizio di questa chiacchierata, José Manuel Peramás scrive e fa stampare tre libri. Ne vedete le copertine qui accanto. Scrisse anche altri testi, rimasti manoscritti, importantissimi anch’essi. Il primo suo libro, di 96 pagine, ha il titolo (mettiamo solo la traduzione dal latino) “Della scoperta del nuovo mondo e dell’aver ivi portato il Sacrificio di Cristo” e lo stampa la Calcografia di Giuseppe Antonio Archi, a Faenza, nel 1777. Il secondo, intitolato “Sulla vita e sui costumi di sei sacerdoti paraguaiani” di 299 pagine, esce, sempre dalla Tipografia Archi nel 1791. Il terzo, che uscì nel 1793, poco dopo la sua morte, è intitolato “Sulla vita e sui costumi di tredici uomini paraguaiani”. I primi due li abbiamo trovato su googol, il terzo, no: ma una copia l’abbiamo trovata presso la Biblioteca Comunale di Forlì, nella raccolta Piancastelli. Ebbene - ci ha detto il professor Romanato - è proprio in questo terzo libro “faentino” che il nostro Peramás ci dà quella curiosa informazione sull’origine del gioco del calcio della quale vi abbiamo parlato all’inizio.
San Jgnacio del Mari
 Sentite. Scrive Peramás in latino, e noi ne riportiamo la traduzione così come ce l’ha comunicata Gianpaolo Romanato: “ ... nei giorni di festa, dopo la messa della sera, gli uomini [gli indios Guaranì] organizzano una finta battaglia in piazza, scagliando frecce contro un bersaglio. Sono talmente abili in quest’arte, che tanto correndo dietro un animale, quanto dietro un uccello in volo, quasi mai falliscono il bersaglio. Solevano anche giocare al pallone, che, anche se di gomma piena, era così leggero e veloce che, una volta ricevuto il colpo, continuava a rimbalzare per un bel pezzo, senza fermarsi, spinto dal proprio peso. [I Guaranì] non lanciano la palla con le mani, come noi, ma con la parte superiore del piede nudo, passandola e ricevendola con grande agilità e precisione”. Questa notizia - scrive sempre il professor Romanato in un altro articolo - è confermata da un altro gesuita, José Cardiél, anch’egli spagnolo, anch’egli rifugiato a Faenza e morto qui nel 1781. Cardiél lo scrisse nel 1771. Si tratta di una “Breve relazione delle Missioni del Paraguay”, un manoscritto, pubblicato in Spagna nel 1913. Ecco cosa dice Cardiél: “Dopo la messa si dividono i lavori di tutta la settimana e se ne vanno a mangiare e a giocare alla palla (pelota) che è quasi il loro unico gioco. Però non lo giocano come gli spagnoli: non la tirano e la rimandano con la mano. All’inizio, tirano la palla un po’ in alto e la colpiscono con un colpo di piede nello stesso modo di noi con la mano, e a rinviarla gli avversari lo fanno ugualmente col piede, altrimenti è fallo. La loro palla è composta da un certo tipo di gomma e salta molto di più delle nostre palle. Partecipano in molti a questo gioco e fanno le loro scommesse o su una parte o sull’altra...”.
Insomma, non solo uno, ma due Gesuiti che sono vissuti a Faenza, ci rivelano che furono gli indios Guaranì ad aver giocato al calcio prima di chiunque altro. Adesso ci spieghiamo perché Pelé e Maradona e in genere tutti i calciatori sudamericani sono (o sono stati) così abili, funamboli quasi, nel gioco del calcio: per forza, sono gli eredi dei calciatori Guaranì!
José Manuel Peramás muore a Faenza all’età di 61 anni il 23 maggio del 1793.  Sul suo soggiorno a Faenza, insieme a quello di altri suoi confratelli, ci sarebbe molto ancora da raccontare. Per adesso ci fermiamo qui, perché ve la faremmo troppo lunga. E speriamo di essere stati sufficientemente chiari perché ci accorgiamo di aver messo le mani in una vicenda un po’ troppo complicata. Se salterà fuori qualcos’altro di interessante, ve lo diremo nel prossimo numero, tra sei mesi. Ringraziamo ancora una volta il professor Gianpaolo Romanato: dal suo articolo è nata la nostra ricerca che lui, poi, ci à aiutato a completare. E padre José Manuel Peramás? Qui noi l’abbiamo chiamato spesso “nostro”. Non vi sembri una forzatura. Perché se è vero che era spagnolo di nascita e paraguaiano di residenza, è anche vero che poi è diventato veramente un faentino, sia perché Faenza lo ha accolto generosamente dopo tanto peregrinare, sia perché a Faenza si è trovato bene, e sia perché a Faenza ha potuto scrivere in pace molte pagine, e pubblicare i suoi tre ultimi, importanti libri. Per questo possiamo definire “faentino” il padre gesuita José Manuel Peramás, studioso, latinista, insegnante, scrittore, poeta, missionario, sociologo: veramente un grand’uomo e un gran prete.
E, per giunta, anche scopritore dei veri inventori del gioco del calcio.

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