Fanino Fanini

"Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita" - Dino Campana, Canti Orfici.
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Fanino Fanini

di Giorgio Bassi


Quali siano state le vicende della vita di Fanino Fanini lo diranno le pagine che seguono, tratte dal Dizionario Biografico degli Italiani. Si tratta di una voce ben documentata e consapevole di una bibliografia non sterminata, ma consistente. A me dunque spettano alcune riflessioni iniziali. Non ho una particolare predisposizione per la storia patria o storia locale (comunque la si definisca), devo perciò confessare che il mio interesse per Fanino è stato suscitato dai due faentini che nel nostro secolo hanno legato il loro nome ai casi dell’ eretico suppliziato a Ferrara. Due uomini certo non unanimemente amati dai concittadini loro contemporanei. Si tratta di un prete, Francesco Lanzoni e di un laico, Giovanni Cattani. Entrambi, in tempi e in modi diversi, si sono occupati di Fanini. Anzi, a mio modo di vedere, proprio il giudizio morale su un personaggio come Fanino è ciò che più li accomuna. Cattani provava un sentimento di grande affinità spirituale per Lanzoni. Aveva anche fatto in tempo a conoscerlo di persona, da bambino e, in seguito, morto il sacerdote nel 1929, fin dagli anni dell’università, aveva iniziato ad occuparsene come studioso. Curò infatti, tra l’altro la pubblicazione de L’itinerario spirituale di Francesco Lanzoni, per i tipi di Lega (1). Ne fece inoltre un ritratto davvero coinvolgente nelle sue Note faentine (2). In queste ultime ribadisce con decisione l’attaccamento totale e incondizionato di Lanzoni all’ortodossia cattolica, pur nel travaglio della coscienza. Il laico Cattani difende appassionatamente il prete Lanzoni dall’accusa di modernismo che gli fu portata a più riprese e in forme non sempre leali (per usare un eufemismo).

Il 31 ottobre 1517 il monaco Martin Lutero(1483-1546) affigge sulla porta dela chiesa del castello di Wittenberg le 95 tesi in latino riguardanti il valore e l'efficacia delle indulgenze.
Ne La controriforma nella città e diocesi di Faenza (3) è dedicato a Fanino l’ottavo capitolo. Lanzoni, pur componendo un’opera storica di grande valore per la nostra città, quali che siano le opinioni di chi la legge (ma non si deve dimenticare, credo, che la sua appartenenza alla comunità scientifica internazionale è legata soprattutto alla sua opera di dottissimo agiografo), non smentisce mai di farlo dal punto di vista di un prete cattolico. E mi pare che questo confermi l’opinione di Cattani riportata in precedenza. Ad esempio parlando della conversione di Fanino alle dottrine protestanti usa il termine “pervertimento” (4), in altro punto definisce “rinnegati” i religiosi che hanno abbandonato la Chiesa di Roma per la Riforma. Ancora maggior valore va perciò attribuito al brano qui sotto riportato: “La tragica fine del giovane fornaio faentino [si tratta ovviamente di Fanini] desta commiserazione e pietà. Certo egli non abbracciò le idee dei novatori per darsi a vita libera e sensuale, come facevano parecchi preti e frati suoi contemporanei; né, perseguitato e cercato a morte, per evitare il carcere e l’estremo supplizio fuggì dall’Italia e riparò in Svizzera, come fra Ochino e altri rinnegati, ma rimase in patria e pagò di persona. Fanino, come parecchi suoi compaesani, fu giovane ardente, entusiasta e coraggioso, fornito di naturale facondia e non ignaro delle lettere e della poesia. Egli accettò i sistemi teologici d’oltralpe e se ne fece appassionato e animoso propagatore, forse più per dispetto contro l’ignavia, l’ignoranza e i vizi intollerabili del clero contemporaneo che per altre ragioni. Morì con forza d’animo e con serenità” (5).
A parte le considerazioni iniziali che sono di sostanziale apprezzamento morale (anche se la scelta di Fanino viene presentata inevitabilmente come una scelta “in negativo” contro i vizi del clero e non come una convinzione in positivo) la chiusa di questo paragrafo suona senza alcun dubbio come un’epigrafe commossa. Più avanti, nello stesso capitolo, Lanzoni passa in rassegna i numerosi martirologi di parte protestante che si occuparono di Fanino e qui si palesa l’agiografo di razza che si ribella di fronte alla grossolanità di certe ricostruzioni della vita del Fanini, e paragona gli autori di tali resoconti a quegli “scrittori del III, IV, V, VI secolo [che] manipolarono e raffazzonarono gli Atti sinceri degli antichi martiri cristiani” (6). In questo modo Lanzoni, con suprema ingenuità o forse, chissà, con sublime ironia, mette l’uno a fianco agli altri, sullo stesso piano, l’eretico faentino e i primi martiri cristiani. Quanto a Giovanni Cattani non mi risulta che egli abbia mai pubblicato nulla su Fanino. Per lui fece qualcosa di diverso, ma ugualmente significativo. Si prodigò perché al “giovane fornaio” fosse dedicata una strada. Non un’anonima strada di periferia, ma una piccola via del centro, a poche centinaia di metri dalla piazza. Erano in effetti gli anni della prima amministrazione di sinistra a Faenza dopo un trentennio di governo democristiano. Sono sicuro però che Cattani non fece quella proposta con spirito di rivalsa o mosso da un atteggiamento di anticlericalismo old fashion (che gli era totalmente estraneo) né conosco per nulla quali siano state le reazioni della Curia faentina (se pure vi furono). Si trattò per certo, di una proposta “in positivo”, per dare memoria al nome di una persona morta per testimoniare le proprie più profonde convinzioni. E la targa in ceramica, dettata dallo stesso Cattani recita, come ognuno può vedere: “Fanino Fanini, evangelico faentino, per la sua fede impiccato ed arso”. Queste parole fanno di una semplice targa stradale un piccolo unicum poetico di cui ritengo la nostra città debba andar fiera, quali che siano le opinioni di chi lo legge.

La targa in ceramica indicante la via che Faenza gli ha dedicato.
In una pagina di Note faentine c’è la chiave, credo, per capire fino in fondo il significato della intitolazione di una via del centro ad un “eretico”; questo significato, come si può ricavare dalle parole che seguono, va al di là del caso di Fanini e coinvolge la nostra vita di tutti i giorni: “La storia abitua sempre ad essere più equanimi; la comprensione storica è la medicina più sicura contro il fanatismo e la base più solida del rispetto per la libertà degli avversari. La quale è assicurata solo quando si è persuasi che gli avversari sono indispensabili. Cioè ci debbono essere e non già dire: ci sono, ma quanto sarebbe meglio che non ci fossero.
Finché si ragiona ingenuamente così si è sempre disponibili per l’eliminazione degli avversari perché si accetta in linea di principio la loro assenza come l’optimum desiderabile. Invece si può considerare la grande conquista storica, la più grande, della carità cristiana, l’indispensabilità degli avversari, la loro necessaria presenza” (7).
Da Fanino è inevitabile che si vada a parlare di Faenza come città infetta, appestata dall’eresia in modo tanto più virulento in quanto le infiltrazioni protestanti avevano colpito tutti i ceti sociali. Anzi secondo un’opinione riportata da Simonetta Adorni Braccesi, la nostra città rientrerebbe nel novero di quei centri italiani in cui più a lungo durò l’illusione della possibilità di professare liberamente la propria fede. “Si tratta di situazioni particolarissime che si incontrano in quattro casi: Modena, Lucca, Faenza e Trento. Ivi una consistente adesione al movimento filoriformatore di esponenti della nobiltà vecchia e nuova poteva e fece anche sperare, per periodi di tempo più o meno brevi, in una protezione delle magistrature cittadine, cui quegli stessi esponenti si avvicendavano” (8).
Se anche a Lucca, orgogliosa repubblica di mercanti (molto simile, dal punto di vista istituzionale, alle libere città imperiali della Germania dove la riforma protestante aveva attecchito e si era sviluppata), in non molto tempo, l’Inquisizione romana riuscì a prendere il sopravvento, costringendo un bel numero delle famiglie più in vista all’emigrazione coatta (9), figuriamoci cosa poteva accadere a Faenza. Da noi il momento più convulso deve spostarsi molto in avanti rispetto alla morte di Fanino, nel 1567-68 (10). Nel 1566 era diventato papa, col nome di Pio V, il domenicano Antonio Michele Ghislieri. Si trattava, si direbbe oggi, di un segnale molto forte, da parte del collegio dei cardinali. Infatti il Ghislieri era nientemeno che il Grande Inquisitore. Se si considera che, nei conclavi del precedente ventennio, avevano seriamente rischiato di diventare pontefici Reginald Pole e Giovanni Morone, prelati molto aperti al dialogo con le istanze della riforma (11), si capirà che i giochi erano veramente fatti ed era iniziata a tutti gli effetti la controriforma post tridentina. Cattani ce l’aveva spesso in bocca la controriforma. Quando ero suo allievo era proverbiale, tra noi studenti, una frase divenuta davvero cult: “è tutta colpa della controriforma”. Frase che, in realtà, il nostro insegnante non aveva mai pronunciato così, sic et simpliciter, ma che era un’efficace sintesi di molte delle sue lezioni, anzi di quelle perorazioni che Cattani iniziava quasi per caso e proseguiva con gli occhi socchiusi e la testa alta come per seguire meglio il filo dei suoi pensieri. E leggendo alcune parti delle Note faentine, uscite del resto appena un anno dopo che io ebbi terminato il liceo, mi sembra proprio di ascoltare Cattani dal banco di scuola. Ecco ad esempio come egli sintetizza la reazione controriformistica nella nostra città dopo la scoperta dell’ “infezione”:
“Nella nostra città….[la tradizione cattolica] più che in altre parti della penisola si protraeva beatamente in pace al riparo dell’«errore» e anche quando questo fece una volta capolino in forma assai embrionalmente organizzata, fu spazzato via, nonostante il grande spavento provocato, con estrema facilità. Beninteso si provvide a disinfestare l’ambiente con ogni cura, si instaurò un ottimo servizio di informazione e delazione (una congregazione laica, la Compagnia della Santa Croce, ebbe nome dal popolo di spie dell’Inquisizione), si aggiunse un buon numero di altri ordini e congregazioni religiose a quelli già esistenti in città, si stabilì un più severo controllo sulla vita familiare e di gruppo in ispecie dei ceti più abbienti” (12). Secondo Cattani le conseguenze di questa reazione (dappertutto, ma a Faenza in particolare) si erano protratte nel tempo fino a investire le nostre abitudini di contemporanei e soprattutto la nostra forma mentis (espressione da lui molto usata), ma non è questo il luogo per parlare di tali importantissime questioni. Torniamo al XVI secolo. Sul fatto che la Chiesa riformata a Faenza fosse “assai embrionalmente organizzata” pare lecito avanzare qualche dubbio, certo la reazione dell’Inquisizione fu terribile.
Gli arresti e anche le esecuzioni furono numerosi e coinvolsero tutti gli strati sociali. Si vociferava addirittura che Pio V avesse in animo di organizzare una specie di deportazione in massa dei faentini con l’intenzione di fare di Faenza una colonia.

Una xilografia del 1496 raffigurante una predica.
C’è un documento dell’aprile del 1568, riportato dal Lanzoni (e conservato nel nostro Archivio di Stato) che è di straordinario interesse. Si tratta di una lettera inviata al Magistrato della nostra città (gli Anziani) da parte di alcuni faentini (i loro nomi, Severoli, Zanelli, Armenini sono fra quelli della elite cittadina) residenti in Roma e a vario titolo rappresentanti della comunità presso la corte pontificia. Sollecitati dagli Anziani ad intervenire a favore dei loro conterranei dopo gli arresti degli “eretici” essi si mostrano indecisi e irresoluti a tutto. Forse è fin troppo facile infierire, ma questi signori sembrano davvero annichiliti.
D’altra parte probabilmente non avevano tutti i torti a considerare controproducenti alcune avances del Magistrato faentino. “Ultimamente fu concluso da tutti che era cosa difficile et quasi impossibile, per ciò che il parlar a Sua Santità che non si proceda più oltre in simil causa [d’eresia] è domanda impertinente et non scusibile, perché la città mostrarebbe esser più infettata che in fatto non è” (13).
Prosegue poi la lettera scartando una ad una tutte quelle che, evidentemente, erano proposte fatte dagli Anziani: non si può chiedere che le cause si “espediscano a Faenza” (si tratterebbe, dico io, di un residuo slancio di autonomismo cittadino che appare ormai davvero anacronistico); non è opportuno chiedere che le cause si celebrino con celerità; non è bene che siano loro, residenti in Roma, a tentare di intercedere ecc.
Le proposte non sono molto più concludenti, come la seguente, insulsa fino all’impudenza:
“Habbiamo similmente pensato che sarebbe utile far istantia che si scoprissero gli accusatori che par si dica haver dato certe liste, per far conoscer a tutt’il mondo la malignità loro; il che però ci par cosa difficile, per rispetto di trovar prova sufficiente sopra ciò”. (14)
E’ chiaro che dopo aver manifestato simili posizioni l’unico atteggiamento realistico sia quello di star fermi immobili aspettando la fine della buriana. D’ora in poi non ci sarà più spazio, nella nostra comunità, per quel sentimento di autonomia “repubblicano” che pur anima fino alla fine dell’antico regime i ceti dirigenti di molte città soggette ad un principe o ad una dominante. Si deve ancora ricordare che nel 1570 il Cardinal Legato di Bologna e Romagna, Alessandro Sforza depennò dall’albo dei Consiglieri di comunità 28 nominativi e 32 da quello dei Cento Pacifici. Son lontani ormai perfino i tempi in cui nel mettere a morte Fanino vi erano stati tentennamenti, raccomandazioni, pressioni. Anni luce sembrano dunque passati dal periodo in cui il popolo (in tutti i suoi ceti) credeva di poter prendere la parola per giudicare i propri pastori o per fare discorsi intorno alla propria anima come è testimoniato in quelle emozionanti pagine di Federico Chabod in cui si riportano le meditazioni sulla grazia, sulla salvezza, sulla predestinazione, di un modesto scrivano milanese rimasto anonimo (15).
Un’ultima considerazione, da bibliotecario questa volta, riguarda il Dizionario Biografico degli Italiani opera per vari motivi in crisi di cui si è più volte parlato, negli ultimi anni, anche sulle pagine culturali dei quotidiani. Come forse si sa il consiglio dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana (la cui opera di gran lunga più conosciuta è, mi scuso per l’eccesso di informazione, la cosiddetta Enciclopedia Treccani), delle cui iniziative editoriali è parte il DBI, è stato sul punto di decretarne la fine per eccessiva passività. Il primo volume del Dizionario è uscito nel 1960, oggi (1998) siamo giunti con il vol.47 alla metà della lettera F. Un ritmo troppo lento? Per alcuni decisamente sì, per altri, invece, una maggiore frequenza significherebbe soltanto snaturare l’opera imponendo ingiusti tagli nelle scelte dei personaggi e mettendo in forse la serietà delle singole voci.

Stefano Ussi (1822-1901) L'esecuzione di Girolamo Savonarola.

Non entro nel merito della questione generale, anche se mi piacerebbe tanto che il Dizionario continuasse ad essere serissimo e nello stesso tempo velocizzasse di molto le proprie uscite. Ho fatto però una piccola indagine (spero di non aver violato troppo la legge sulla privacy) e ho scoperto che l’autrice della voce qui di seguito riportata, Lucia Felici, venne nella nostra biblioteca a far ricerche su Fanino nel maggio del 1988. Ora, considerato che il relativo volume del DBI è del 1994, pur ammettendo che le bozze non siano state consegnate che dopo qualche mese (non sono così presuntuoso da pensare che una visita alla nostra biblioteca esaurisse la ricerca), non posso non rilevare che sei anni di tempo appaiono decisamente troppi, pur essendo ovvio che non tutte le voci di quel volume saranno state composte nel medesimo 1988. Mi sembra comunque che questo esempio possa dare qualche lume sui ritmi di produzione del Dizionario.
Del resto alle considerazioni precedenti se ne aggiunge subito un’altra sempre relativa al DBI. Scenderò ancora di più sul piano dei ricordi personali. Quando venne, la Felici, mi fece l’impressione di una giovane appena laureata che veniva usata come “negretto” da un qualche docente universitario: situazione, per chi opera in una biblioteca, abbastanza frequente e, anche se non viene esplicitata, piuttosto evidente (nonché un poco penosa). Sono contento di essere stato smentito dai fatti. La Felici ha firmato la voce Fanini.
Inoltre devo aggiungere che ha pubblicato di recente, per una importante casa editrice fiorentina, un saggio sul teologo protestante del cinquecento Martin Borrhaus (16). Quando venne mi permisi di chiederle se avesse preso contatto con Cattani. Non le era sconosciuto e mi pare di ricordare che mi dicesse poi di avergli telefonato. La domanda è: perché il DBI, per le voci più “localistiche” non sfrutta studiosi seri delle città e terre in cui visse e operò il personaggio di cui deve trattarsi? In effetti per quanto riguarda la nostra città dopo la collaborazione, per un certo tempo piuttosto intensa, di Ennio Golfieri (Ballanti Graziani, Bertolani, Bertucci, Biagio d’Antonio), dopo la lettera B (salvo smentite che sarei contento di ricevere) il rapporto con i “genii loci” mi sembra completamente inaridito (vi è l’eccezione di Pietro “Bibi” Marsilli per la voce Ferniani, ma si tratta di un “emigrato”). Non vorrei che (sempre che il nostro caso sia generalizzabile) possa essere questa mancanza di collegamenti con la periferia o, se si preferisce, con la provincia, una delle cause (certo la meno importante) della crisi del DBI.

NOTE

(1) E.VALLI e G.DONATI, L’itinerario spirituale di Francesco Lanzoni, a cura di G.Cattani, Faenza, Lega, 1958
(2) G.CATTANI, Note faentine, Faenza, Lega, 1974, pp.97-104
(3) F.LANZONI, La controriforma nella città e diocesi di Faenza, Faenza, Lega, 1926
(4) ivi, p. 90.
(5) ivi, p. 95.
(6) ivi, p. 98.
(7) G.CATTANI, Note faentine, cit., p. 20.
(8) S.ADORNI BRACCESI, Una città infetta. La repubblica di Lucca nella crisi religiosa del Cinquecento, Firenze, Olschki, 1994, Premessa, p. XIII. Voglio qui ricordare, per spirito di campanile, che un notevole saggio sui movimenti religiosi cinquecenteschi in un’altra importante città toscana, Siena, è stato scritto dal faentino, Valerio Marchetti: Gruppi ereticali senesi del Cinquecento, Firenze, La Nuova Italia, 1975.
(9) Soprattutto nella Ginevra di Calvino. Recentemente, il 28 marzo 1998, a Lucca si è tenuto un seminario dal titolo L’emigrazione confessionale dei lucchesi in Europa (XVI-XVII secc.). Nell’occasione è stata conferita la cittadinanza onoraria ai discendenti di due famiglie emigrate.
(10) Si veda quanto pubblicato da Lanzoni nel “Bollettino diocesano” faentino del  1927 (I nuovi documenti sui”luterani” faentini, pp. 80-86, 100-104, 117-119. A completamento della piccola bibliografia sui drammatici fatti dell’inquisizione a Faenza va ricordato M.G.TRERE’, Gli avvenimenti del sedicesimo secolo nella città di Faenza con particolare riguardo ai processi e alle condanne degli inquisiti per eresia, in “Studi Romagnoli” VIII (1957), pp.279-297.
(11) Si veda M.FIRPO, Riforma protestante ed eresia nell’Italia del Cinquecento, Roma-Bari, Laterza, 1993, in particolare il capitolo L’eresia ai vertici della Chiesa e il nicodemismo. Questo testo  si affianca a quello di S.CAPONETTO, La riforma protestante nell’Italia del Cinquecento, Torino, Claudiana, 1992, nel dare per la prima volta una visione di in-sieme del movimento riformatore nelle città italiane. Il noto volume di Delio Cantimori  Eretici italiani del Cinquecento, infatti  punta sopratuttto sull’esame delle singole personalità.
(12) G.CATTANI, Note faentine, cit., p. 11.
(13) F.LANZONI, La controriforma nella…., cit., p. 209.
(14) Ivi, p. 210.
(15) F.CHABOD, Lo stato e la vita religiosa a Milano nell’epoca di Carlo V, Torino, Einaudi, 1971, p.333 e sgg.
(16) Tra riforma ed eresia. La giovinezza di Martin Borrhaus, 1499-1523, Firenze, Olschki, 1995.


Dal sito Ereticopedia la biografia di:

Dal sito della Treccani la biografia di:
Fanini, Fanino

Dizionario di eretici, dissidenti e inquisitori nel mondo mediterraneo [ISBN 978-88-942416-0-0]

Fanino Fanini (Faenza, ca 1520 – Ferrara, 22 agosto 1550) è stato un eretico condannato a morte dall'Inquisizione.

Biografia

Figlio di Melchiorre Fanini, popolano benestante, e di Chiara Brini, ebbe un fratello che si fece prete, Giuseppe, e una sorella di nome Bianca. In quanto primogenito ereditò, nel 1546, i beni paterni. Intraprese l'attività di fornaio e nel 1542 sposò Barbara Barboncini, dalla quale ebbe due figli (Giovanni Battista e Giulia).
Probabilmente influenzato dalla predicazione dell’Ochino, di passaggio a Faenza nel 1538, e dala lettura di testi filoprotestanti come il Beneficio di Cristo o la Tragedia del libero arbitrio di Francesco Negri, si convertì alle nuove idee religiose attorno al 1543-44, intraprendendo un'attività di predicazione e propaganda, che ne provocò il primo arresto nel 1547.
Processato dall'inquisitore di Faenza Alessandro da Lugo, abiurò su pressione dei parenti. Fu liberato ma bandito dai territori dello Stato della Chiesa. Incurante di ciò proseguì, insieme ad alcuni compagni, l'attività di propaganda e proselitismo nelle campagne della Romagna. Fu quindi nuovamente arrestato nel febbraio 1549, a Bagnacavallo, in territorio estense.
Proprio a Bagnacavallo Fanini era entrato in contatto con le suore del convento di S. Chiara. Dagli interrogatori di sette di queste, condotti nel 1548 dall'inquisitore della Romagna Antonio Delfini, si evincono i nomi dei complici (Barbone Morisi e Giovan Matteo Bulgarelli) e i contenuti delle dottrine propagandate dai Fanini: negazione del sacramento dell'eucarestia, svalorizzazione della messa e degli ordini sacerdotali, rifiuto del culto dei santi, oltre che di altre pratiche tradizionali, come la recita del rosario o il digiuno.
Trasferito dalla rocca di Lugo a Ferrara, Fanini fu difeso da Camillo Orsini, dalla duchessa di Ferrara Renata di Francia e da Lavinia Della Rovere (quest'ultima intervenne su sollecitazione di Olimpia Fulvia Morato che le scrisse appositamente dalla Germania), ma senza successo. La Congregazione del Sant'Uffizio, da parte sua, ne richiese l'estradizione a Roma, ma il duca Ercole II preferì che il processo si svolgesse a Ferrara. Già il 25 settembre 1549 Fanini fu condannato a morte, ma gli interventi a suo favore ritardarono l'esecuzione, che avvenne comunque a Ferrara il 22 agosto 1550 tramite impiccagione (il cadavere fu quindi bruciato sul rogo come da prassi e le ceneri gettate nel Po).
La vicenda di Fanini fu presentata da Giulio Della Rovere nella sua Esortatione al martirio (1552), dove il fornaio faentino veniva esaltato come martire protestante esemplare. In tale opera Giulio Della Rovere accennava anche a vari scritti lasciati da Fanini (che non ci sono pervenuti). Prima ancora la vicenda di Fanini era stata trattata anche da Francesco Negri nella De Fanini faventini et Dominici bassanensis morte … brevis historia (1550).

Fonti e bibliografia
* Salvatore Caponetto, La Riforma protestante nell’Italia del Cinquecento, Claudiana, Torino 19972.
* Alfredo Casadei, Fanino Fanini da Faenza. Episodio della Riforma protestante in Italia in "Nuova Rivista Storica", XVIII, 1934, pp. 168-195.
* Lucia Felici, Fanini, Fanino, in DBI, vol. 44 (1994).
* Giulio da Milano, Esortatione al martirio, [Poschiavo?], Dolfino Landolfi?, Poschiavo? 1550.
* Francesco Lanzoni, La controriforma nella città e diocesi di Faenza, F. Lega, Faenza 1925.
* Francesco Negri, De Fanini Faventini et Dominici Bassanensis morte ... brevis historia, Dolfino Landolfi?, Poschiavo? 1550.
* Maria Grazia Tre Re, Gli avvenimenti del XVI secolo nella città di Faenza con particolare riguardo ai processi e alle condanne degli inquisiti per eresia, in "Studi romagnoli", VIII, 1957, pp. 279-297.
Article written by Daniele Santarelli | Ereticopedia.org © 2014
FANINI, Fanino

FANINI, Fanino (Fannio Camillo). - Nacque a Faenza (od. provincia di Ravenna) intorno al 1520 da Melchiorre e Chiara Brini. Un suo biografo, Giulio da Milano, lo dice "giovine" nel 1550.

La famiglia era popolana, ma agiata: fornai da alcune generazioni, i Fanini possedevano una casa nella parrocchia di S. Stefano, una vigna e qualche altro appezzamento di terreno; la Brini aveva portato in dote la somma piuttosto cospicua di 100 scudi d'oro, che le fu restituita alla morte del marito, avvenuta dopo il 7 ott. 1546. Per volontà testamentaria del padre, i beni familiari passarono al F., mentre il fratello Giuseppe, divenuto prete, e la sorella Bianca, sposatasi con Virgilio Raccagni, furono esclusi dall'eredità.
Intrapreso il mestiere di fornaio, il F. sposò nel 1542 Barbara Baroncini, che gli portò la discreta dote di 266 lire bolognesi. Dall'inventario dei beni del F., redatto il 19 sett. 1552, risulta che egli possedeva sette appezzamenti di terreno e una casa fornita di comoda suppellettile (Sez. d. Archivio di Stato di Faenza, Notarile, vol. 1494, cc. 127-132). Dalla Baroncini ebbe due figli: Giovanni Battista, nato nel 1544 circa e già morto il 3 ott. 1562, e Giulia, che nel 1566 risulta sposata a Giulio Milzetti e forse morì prima del 27 genn. 1578.
Non risulta da alcun documento il periodo esatto nel quale il F. cominciò a orientarsi verso le nuove idee religiose. I biografi fanno, di solito, riferimento all'influenza esercitata su di lui dal Beneficio di Cristo del benedettino Benedetto da Mantova (1543) e dalla Tragedia del libero arbitrio dell'eretico bassanese Francesco Negri (1546). Si tratta, considerata l'ampiezza della diffusione delle due opere, di riferimenti visibilmente generici. Tutto ciò che si può asserire al riguardo è che la diffusione di idee protestanti a Faenza fu anteriore al 1543. Non sappiamo quale impressione abbia lasciato sul F. la predicazione di B. Ochino a Faenza nel 1538. La tradizione agiografica protestante gli attribuisce un'eccezionale conoscenza delle Scritture, tale da consentirgli di citarle diffusamente a memoria. Testimoni d'accusa gli attribuirono il possesso e la conoscenza di "molti libri contagiosi" (Casadei, p. 33). Giulio da Milano, che dichiara d'aver narrato la biografia del F. sulla base d'un documento stilato da un conoscente di quest'ultimo, ci informa che, subito dopo l'"illuminazione" che lo convertì al protestantesimo, il F. si diede a un'intensa propaganda segreta. Questa attività propagandistica del F. rientra, con molta probabilità, nella situazione descritta dal gesuita Pascasio Broët a Francesco Saverio in una lettera da Faenza del 1° marzo 1545: "Molti huomini et donne sonno in questa città, quali sono machiati di questa dottrina lutherana, qual hanno seminato alcuni predicatori passati, maxime frate Bernardino Ochino da Siena" (Tacchi Venturi, I, 2, p. 142).
Arrestato nel 1547, il F. fu processato una prima volta dall'inquisitore Alessandro da Lugo e, "liberato per pietà", fu tuttavia "bandito da Faenza et dalle terre dj santa Chiesa romana per conto d'haeresia, con speranza si dovesse emendare", secondo quanto scriverà il 7 febbr. 1549 a Ercole II d'Este il frate conventuale Giovanni Pietro Celso Giusti per informarlo della pericolosa attività del F. a Lugo (Casadei, p. 33). Giulio da Milano, interessato a presentare al mondo protestante un modello di martirio, scrive che il F. aveva abiurato "per le preghiere dei congiunti" e che, pentitosi, "per fare ammenda del suo errore voleva tanto più magnificamente confessare Dio. E così se ne andò per la Romagna predicando apertamente in ogni città" (Giulio da Milano, p. 96). L'ampiezza della predicazione del F. in Romagna è attestata da una lettera da Ravenna dell'inquisitore della Romagna, il conventuale Giovanni Antonio Delfini, del 27 febbr. 1549, al cardinale Marcello Cervini. In essa, nel comunicare l'arresto del F., il Delfini esprimeva anche la speranza che, essendo il F. "capo di setta", avrebbe rivelato il nome di altri complici (Casadei, p. 6). Il Delfini scriveva sulla base d'un suo interrogatorio di alcune monache del Convento di S. Chiara di Bagnacavallo, avvenuto probabilmente tra il 18 maggio e il 23 ott. 1548 (ibid., pp. 30 ss.), che si è conservato e che costituisce il documento più importante anche sui contenuti della predicazione del F. in Romagna. (continua)



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