Angelo Frignani, un carbonaro nel Ricovero dei pazzi di Faenza |
"Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita" - Dino Campana, Canti Orfici. |
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Angelo Frignani un giovane carbonaro nel
Ricovero dei pazzi di Faenza di Giuseppe Dalmonte A differenza de Le mie prigioni di Silvio Pellico, pochi oggi conoscono o ricordano le Memorie del ravennate Angelo Frignani, che l’esule politico romagnolo pubblicò a Parigi nel 1839 con il titolo La mia pazzia nelle carceri, dedicandola ai “Cittadini di Faenza”, come segno di gratitudine per i tanti benefici ricevuti durante il ricovero nell’Ospedale della città manfreda, e in particolare per essere scampato alla forca, grazie alla benevola protezione del primario dottor Paolo Anderlini. Nato a Ravenna nel 1802, il Frignani aderisce giovanissimo alla Carboneria riuscendo a salvare un patriota, condannato dal duca di Modena, rifugiatosi nella sua città natale. Nella Romagna scossa dalle azioni delittuose delle sette carbonare e dalle vendette sanfediste, fonte di viva preoccupazione e di energica repressione da parte del governo papale, venne inviato da Roma prima il card. Rivarola, che con la celebre sentenza del 1825 condannò più di 500 cittadini, e in un secondo tempo monsignor Filippo Invernizzi, a capo di una Commissione con pieni poteri, composta di civili e di ecclesiastici, per completare l’opera di sradicamento della “mala pianta” delle sette rivoluzionarie.
“Verso mezza notte di questo medesimo dì [maggio 1828], fui tratto dalle carceri di S. Domenico, e condotto nei camerotti dello spedale faentino. Nel tragitto, io dirigeva il drappello dei miei soldati, e con voce alta suonava il tamburo. Passando poi per l’infermeria benedicevo, a guisa di vescovo, i poveri malati; giunto all’altare, volli inginocchiarmi e intonare il Benedictus Dominus Deus Israel. Ma i soldati mi spinsero innanzi a forza”.
La descrizione del soggiorno faentino del “finto-pazzo” prosegue per alcuni capitoli piacevolmente leggibili con quadretti e scene particolarmente riuscite: come il primo incontro con l’inserviente-custode Giovanni Andrea, che stabilisce ben presto con il paziente rapporti amichevoli accogliendone le confidenze e i desideri, al contrario il prete direttore dell’Ospedale don Foglietta è deriso ed umiliato dal Frignani davanti agli stessi scolari di chirurgia in visita ai maniaci insieme al primario dottor Anderlini, come pure le tresche amorose del singolare prete con l’infermiera Antonia vengono smascherate dal “matto giacobinaccio”che sarà punito con un bagno nell’acqua gelida della vasca del cortile. Commovente è l’incontro con i propri famigliari e con le persone buone che frequentano l’ospedale per soccorrere i malati, come il pentolaio Raffaele Cavina, Teresa e Carlotta Querzola sorelle del valente carrozzaio Angelo sospetto carbonaro, e altri anonimi faentini che solevano offrire “regalucci di frutta, di vino, di selvaggine ed altre cose squisite” al recluso. Lo stesso Frignani, dopo essersi spacciato per astrologo con alcune ragazze ed averle incuriosite e ammaliate, si prodiga in soccorso di alcuni dementi ascoltando le loro pene e i loro tormenti, come quelli d’amore di una pazza francese che aiuterà a guarire, o l’opera prestata ad un giovane parroco di campagna ricoverato perché ossessionato dal demonio uscito dall’inferno per traviare gli uomini, “volli adoperare tutti i miei sforzi alla guarigion sua, e certo io l’ottenevo, se non era colpa del direttore” [don Foglietta]. Col trascorrere dei giorni il singolare “finto matto” ottiene dalla Commissione Stataria prima la libertà di passeggiare nell’ospedale, poi con il ritorno a Roma di mons. Invernizzi [settembre 1828], gli sarà concesso di passeggiare per la città in festa come “spettatore dei vostri balli, de’fuochi, delle corse, dei canti”, di andare a teatro, di visitare la Biblioteca Comunale e di essere ospite di alcune ragguardevoli famiglie come quelle dei Morri e dei Gucci. Trascorsi altri mesi in questo benevolo clima faentino, finalmente il matto sovversivo ottiene il permesso di rientrare a Ravenna, ma per poco, infatti su consiglio di Domenico Antonio Farini carbonaro di Russi, deciderà di fuggire esule in Francia dove si sposerà e morirà nel 1878. Tali Memorie, vivaci e briose nella narrazione, intrise di sentimenti patriottici, furono a suo tempo poste da Cesare Cantù a fianco delle Mie Prigioni di Silvio Pellico, tradotte ben due volte in francese, e una volta in inglese e in tedesco, ma furono pubblicate in italiano solo nel 1899 da Luigi Rava presso l’editore bolognese Zanichelli. Forse nel 150° dell’Unità d’Italia, questo libro dedicato ai Cittadini di Faenza meriterebbe una riscoperta e una rilettura per riappropriarci con più consapevolezza della nostra memoria civica risorgimentale. |
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