Il jazz arriva a Faenza
Dedicato a Giovanni e Giuliano Todeschini
Roberto Marocci
Circa
nel 1940 la musica jazz giunse in Romagna, terra culturalmente e
musicalmente distantissima da quel tipo di espressione artistica. Si
deve principalmente a Giovanni e Giuliano Todeschini l’arrivo a Faenza
di quella «musica del diavolo». Erano tempi di oscurantismo, autarchia,
leggi e discriminazioni razziali e, perciò, ascoltare e suonare
pubblicamente musica di origine Americana o, peggio ancora
Afro-Americana, era ufficialmente proibito. Ma si sa, i giovani
non si fermano di fronte a nulla, e giustamente sentono il
bisogno di conoscere, sperimentare specie i “tabù”. Un parente dei
Todeschini, che viveva lontano da Faenza, in qualche modo riusciva ad
acquistare clandestinamente dischi prodotti negli Usa, in
particolare di jazz, e quindi passava questo prezioso materiale a
Giovanni e Giuliano. Costoro, amanti della musica e non solo,
iniziarono a condividere l’interesse per la “nuov cosa” assieme ad una
ristretta cerchia di amici, fra i quali alcuni compagni del Liceo
Classico Torricelli.
Pop e i suoi Vecchi Dromedari. Da sinistra, in piedi: Giovanni Todeschini,
Claudio Raffaeli, Giuiano Todeschini, Francesco Liverani, Sante Zannoni;
in ginocchio: Ino Marocci.
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1946, Orchestra Farley. Da sinistra: Giordano Raccagni, ...,
Sante Zannoni(?), Ferruccio Olmeti, Ino Marocci, Walter Bentini.
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Tra questi amici c’era mio babbo Ino, Francesco Liverani, Camillo
Linari, Claudio Raffaeli, Sante Zannoni ed altri. In particolare,
quelli che ho nominato, si riunivano a casa Todeschini, dove oltre ai
suddetti dischi, c’era anche una potente radio con la quale,
sintonizzandosi su onde corte e cortissime, riuscivano ad ascoltare
anche musica jazzata proveniente da oltre confine. Insomma, l’interesse
era alle stelle e quei suoni, così nuovi e diversi, entrarono nelle
vene di quei giovanissimi appassionati, e visto che in quella casa
c’era pure un pianoforte, ognuno di quegli amiconi iniziò a portarsi
dietro lo strumento che conosceva e praticava. Mio babbo, allora
sedicenne e che studiava seriamente pianoforte già da 10 anni, non ebbe
difficoltà a trascrivere melodie ed armonie di molti di quei brani
ascoltati di nascosto. Fu così che sulle tracce scritte di quei pezzi
si prese ad improvvisare, cioè a fare libere ma coerenti variazioni sul
tema. Era nato il jazz a Faenza. L’evoluzione conoscitiva e tecnica di quei
ragazzi fu molto rapida e di conseguenza, messo insieme un minimo di
repertorio “da ballo”, essi iniziarono ad esibirsi “fuori casa”,
dapprima in festicciole private, poi in qualche intrattenimento di
Società tipo “I Franchi”, “Caccia e Pesca”, infine in locali pubblici
anche di paesi vicini, nei quali la gente andava per svagarsi e ballare.
1947, caricatura dellorchestra Farley. Da sinistra, in alto Giordano Raccagni,
Ferrucci Olmeti, Mario Borghini; sotto: Ino Marocci e Gino Sangiorgi.
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A
quel punto il gruppo dovette dotarsi di un nome: «Burro pop e i suoi
vecchi dromedari». Roba da matti !!! Qui ci sarebbe da riempire un
libro di aneddoti che andrebbero dal
comico al drammatico, ma in questa occasione penso sia sufficiente
limitarsi a ricordare solo qualche particolare emblematico. In primis,
il “Facchinaggio Artistico” a cui erano costretti quei nostri eroi,
pionieri della musica moderna. Essi infatti dovevano caricare tutti gli
strumenti su un camioncino o un’auto familiare prestata o presa a
noleggio, recarsi sul luogo dell’esibizione e alla fine ricaricare il
tutto e tornare a casa con le condizioni di quei tempi. A volte
capitava che la retribuzione consistesse in una semplice cena, altre
volte toccava a loro pagare per poter suonare. Il bello veniva quando
l’estroso Giuliano, sul palco (spesso un carro agricolo da bestiame),
doveva annunciare il titolo dei cosiddetti “brani proibiti”, e allora,
onde evitare problemi con la censura di regime: Honey suckle rose
diventava Ognuno succhi la sua Rosa, Saint Louis Blues era La Blusa di
San Luigi, Summertime riviveva come San Marten (in dialetto), Take the
a train si mutava in Prendi un the' in treno Chattanooga choo
choo finiva come C'è un nugolo di ciù. E così via…
Intanto alcuni protagonisti dell’iniziale avventura, conseguita la
Maturità Classica, si iscrissero all’Università di Bologna e qui,
ovviamente, entrarono in contatto con l’ambiente musicale locale,
peraltro già molto più evoluto rispetto a quello faentino. Per quanto
riguarda mio babbo, iscrittosi a Giurisprudenza, non gli fu difficile
familiarizzare con musicisti già conosciuti quali HenghelGualdi,
Annibale Modoni, Giovanni Fenati, i maestri Galassini,Semprini ed
altri. |
Quando babbo vedeva una tastiera di pianoforte si trasformava in
una macchina da musica, motivo per cui, ben presto, si inserì nel giro
delle Jam-Sessions bolognesi, alternando e conciliando il lavoro da
free-lance con l’attività dei “Vecchi Dromedari” faentini, con lo
studio di perfezionamento pianistico, nonché (invero non molto) con la
frequenza universitaria. In questo periodo di forte crescita e
maturazione artistica suonare di tutto con tutti fu un’ineguagliabile
“gavetta”, i cui benefici si ripercossero sull’intera sua
attività futura. Purtroppo l’entrata in guerra dell’Italia significò lo
stravolgimento nella vita di tutti; il conflitto, con tutte le sue
tragedie, bloccò ogni attività, disperse le persone, distrusse vite e
cose, causò svolte fondamentali nell’esistenza di tanti individui. Mio
padre fu tra quelli che operarono una decisiva scelta di vita proprio
come conseguenza di quella guerra. Come quasi tutti i suoi coetanei,
egli venne chiamato alle armi, ma grazie alle proprie competenze
musicali restò a Ravenna, inserito nella fanfara dell’Esercito. Ciò gli
permise di godere di una relativa libertà e quindi di continuare a
suonare dove ve ne fosse l’occasione.
Volantino Pubblicitario.
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Dopo l’8 settembre, in qualche modo, babbo riuscì a passare la linea
del fronte e a riparare a Forlì, ospite di cugini lì residenti. A Forlì
c’è il Comando delle truppe alleate, con tanto di logistica al seguito,
ma soprattutto c’è la grande Orchestra della «Naafi» (Navy, Army, Air
Force Institutes). Gli americani avevano molta cura e disponibilità nel
ristorare, rinfrancare ed allietare le loro truppe quando esse non
erano impiegate in azioni belliche. Alla guida di quell’Orchestra c’era
nientemeno che l’italo americano Joe Marsala, un direttore e
clarinettista già molto affermato e famoso negli Usa. Era ovvio che
quella situazione costituisse un’irresistibile polo di attrazione per
mio padre. Infatti, quando Marsala ebbe l’esigenza di rinforzare la sua
formazione cercando fra i musicisti locali,accadde che mio padre
riuscì ad entrare in quell’Orchestra nelle cui file militavano
solisti americani con i fiocchi e i controfiocchi e con loro
rimase stabilmente fino a quando gli alleati non smantellarono per
togliere le tende, siamo nel 1945.
Durante l’esperienza della Naafi,
babbo ebbe modo di conoscere ed affinare evolute tecniche
strumentistiche, avanzate nozioni armoniche, attingendo il più
possibile da quei solisti americani già così all’avanguardia nella
concezione musicale e con un ben diverso approccio all’arte
dell’improvvisazione. Pochi giorni prima che l’orchestra partisse, Joe
Marsala prese mio padre e più o meno gli disse: «Ragazzo, tu vieni via
con noi, se hai una famiglia te la porti dietro. Per te è pronto un
contratto con la mia orchestra negli U.S.A., l’iscrizione al Sindacato,
la residenza e fra qualche tempo avrai anche la cittadinanzaamericana.
Io ho già deciso per te».
Non ho mai saputo con precisione che cosa in realtà frullasse nella
testa di babbo in quei giorni. Solo di recente ho trovato un carteggio
fra lui e suo padre Lino, mio nonno, che qualche risposta me l’ha data.
Per farla breve, la moral dissuasion che mio nonno esercitò fu
destabilizzante. Ino non seguì gli americani perdendo così chissà quali
occasioni di vita. In ogni modo i fatti di Forlì ebbero come
conseguenza l’abbandono degli studi Universitari e la decisione di
intraprendere la carriera di musicista professionista a tempo pieno, ma
non negli Usa, ambiente nel quale il suo talento jazzistico avrebbe
trovatoconseguenti e giusti sbocchi. Finalmente la guerra terminò e con
la pace tornarono a casa anche i musicisti locali: chi dai vari fronti
bellici, chi dalla prigionia, chi dai rifugi, ma ci fu anche chi non
tornò per niente. In breve tempo andarono riformandosi diverse e
svariate formazioni musicali per ogni genere di richiesta e
gusto. Per quel che riguarda il nostro argomento vanno
soprattutto ricordate le Orchestre «Faenza Swingers» e la «Farley»
(nome tratto da un certo Farletta che ne ospitava le prove).
Di questi
gruppi vanno ricordati quei musicisti che già militavano nei «Vecchi
Dromedari» ma inoltre: Ferruccio Olmeti, Luciano Spazzoli, Mario
Marocci, Giordano Raccagni, Peppino Tasselli, Walter Bentini, Luciano
Donati, Ugo Monti, Solofrizzo, il forlivese Carletto Saporetti,
l’imolese Gino Sangiorgi, il lughese Mario Borghini e parecchi altri
dei quali non ricordo il nome. La «Farley» durò dal 1946 al 1948,
svolgendo un’attività professionale che la portò ad esibirsi nei
migliori locali della Regione nonché, in alta stagione invernale ed
estiva, a Cortina D’Ampezzo sia all’Hotel Savoia che al Palace Hotel
Cristallo,posti di alto livello per quei tempi. Il repertorio doveva
necessariamente essere per intrattenimento e da ballo, ma durante le
esecuzioni erano quasi sempre previsti interventi solistici
improvvisativi. Oramai, specie dopo che le truppe alleate avevano fatto
conoscere agli italiani Glen Miller, il suo “In the mood” e il “Boogie
Boogie”, quel tipo di linguaggio musicale andava incontrando i favori
del pubblico e l’improvvisazione jazzistica ne faceva parte.
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Orchestra Farley.
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1950, caricatura dell'Orchestra Bentini.
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1950, Orchestra Bentini. Da sinistra: Walter Bentini,
Peppino Tasselli, Luciano Donat, Gino Sangiorgi, Ino Marocci, Ezio Giulietti.
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L’esperienza della «Farley» terminò, anche perché alcuni dei suoi
componenti decisero di seguire altre strade professionali: chi il
commerciante, chi l’avvocato, chi l’artigiano, chi il ferroviere, chi
il dentista, chi il magistrato. Dalle ceneri della «Farley» Walter
Bentini creò la sua Orchestra la cui formazione base era costituita da
Ino Marocci al pianoforte, Peppino Tasselli alla tromba, Gino Sangiorgi
al violino, Ezio Giulietti alla batteria, Luciano Donati al
contrabbasso e voce, Walter Bentini alla fisarmonica, sax, clarino e
chitarra. Questa fu un’Orchestra di notevole spessore e successo, si
esibì professionalmente nei più rinomati locali del Nord Italia,
arrivando fino in Svizzera, a Lugano e Locarno. Il suo repertorio restò
molto simile a quello della «Farley», nei modi e nei contenuti.
L’attività di quell’Orchestra Bentini cessò nei primi mesi del 1951 ed
è in quel momento che va collocata la fine di quegli anni pionieristici
e ruggenti della «Jazz and Swing Era» faentina. Di ciò che accadde dopo
a Faenza non conosco molto perché mio padre (e molto spesso anch’io al
seguito) se ne andò a suonare per il mondo fino circa al 1970. Fu
ancora Giuliano Todeschini, durante gli anni 80, a riunire i superstiti
di quell’irripetibile, eroico decennio; insieme si esibirono parecchie
volte in varie situazioni, rimpiazzando i… mancanti con qualche giovane
allievo di mio babbo. Ricordo la prima volta che accadde, Giuliano,
commosso, annunciò: «Pop e i suoi Vecchi Dromedari suoneranno per
voi Ognuno succhi la sua rosa, la blusa di San Luigi, buon
divertimento!».
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