Il Torresino di Montecarlo
di Stefano Saviotti
Più
che un torrione lo si potrebbe definire una piccola fortezza, per le sue
notevoli dimensioni in confronto agli altri torresini della cinta. La struttura
interna, tuttora intatta, comprende una scala che dalla strada delle mura
scende per quasi quattro metri, sino al centro di un’ampia sala rettangolare di
m. 12,20 x 3,90. Ai lati, disposte su due livelli, vi sono quattro postazioni
per bombarde con canne di sfogo per i fumi (ora occluse). Un’altra postazione
si trova in fondo alla sala, in una stanza di m. 5,20 x 1,95, dotata di un
finestrotto che guarda verso via Lapi. Parecchi metri sopra, si trova l’antico
terrazzo sul quale sorge un pittoresco edificio d’abitazione, sopraelevato
rispetto alla strada. Questo
complesso fortificato, posto a difesa del Ponte delle Torri, era l’unico ad
essere chiamato Torrione, mentre
tutte le altre torrette della cinta erano dette torresini. Visto l’ampio spazio interno, fu probabilmente il primo
locale ad essere utilizzato per scopi non militari, una volta cessato l’uso
difensivo. Il 30 aprile 1599, i Cento Pacifici concessero i sotterranei a Paolo
Cavina come deposito per la legna, da sgombrare a semplice richiesta in caso di
bisogno; il 21 giugno, il terrazzo superiore (allora libero da edifici) fu
concesso in enfiteusi per ventinove anni a Teodoro Roveri con canone annuo di
cinque lire. Nel 1610, il figlio Girolamo prese in enfiteusi anche i
sotterranei; il contratto fu regolarmente rinnovato alla scadenza, nel 1628.
Nel 1645, i Cento Pacifici fecero porre un’inferriata ad una delle feritoie
dell’interrato che guardano verso il Ponte, in quanto ignote persone avevano
allargato il vano per introdursi in città di nascosto.
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Veduta del Torrione di Montecarlo intorno al 1840, in un disegno di Romolo Liverani.
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Torrione di Montecarlo visto da via Mura Torelli.
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Nell’agosto
1650 Girolamo Roveri perse il possesso del Torrione, perché da cinque anni non
pagava il canone e fu quindi dichiarato decaduto. Il 1° settembre dello stesso
anno, l’immobile fu affittato per un triennio a Lorenzo Bucci per 14,10 lire
annue. Egli però rinunziò presto, e nel 1651 il Torrione fu concesso per
quattordici lire a G. Battista Montevecchi. Nel 1654 fu aggiudicato a Camillo
Ceroni per 23,10 lire, col divieto di subaffittare i sotterranei e di
utilizzarli come stalle. Tre anni dopo la locazione passò a Damiano Bucci per
20,10 lire, con gli stessi divieti e l’obbligo di mantenere le piante esistenti
sul terreno superiore, e nel 1660 ad Annibale Ricci per tre scudi. Quell’anno
infatti lo scudo divenne la moneta ufficiale dello Stato Pontificio,
sostituendo la moneta locale che a Faenza era la lira bolognese o bolognino (ogni scudo valeva circa
cinque lire).
Nel
1663, il Torrione fu concesso a Serafino Giunchedi; in allegato al contratto
troviamo finalmente una descrizione dell’orto. Dalla parte della strada, il
terreno era chiuso con un muro, e vi si entrava solo tramite una porta di legno
con serratura e catenaccio. La vista del terrazzo superiore dall’esterno della
città era anch’essa preclusa, tramite una fitta siepe di melograno disposta
lungo il perimetro del parapetto. Al centro di quest’area, invisibile agli
estranei, vi era un pergolato realizzato con pali di quercia, otto siepi di
rose disposte “per longo e per traverso
con diverse viti e molti gigli”, due mandorli, due gelsi, tre fichi,
quattro prugni (uno dei quali secco). Per godere dell’amenità del luogo, vi
erano due panchine di marmo. Questo “giardino segreto” passò ancora nel 1666 al
nobile Claudio dal Pane per 1,80 scudi annui, e nel 1670 a Nicola Cenni per due scudi; la serie degli
affittuari continua per diversi decenni. Nel 1700 affittuario era Giuseppe
Baggioni, che subaffittò a Domenico Molinari, donzello dei Cento Pacifici.
L’anno seguente, Molinari distrusse il giardino abbattendo piante e pergolato,
non sappiamo per quale motivo. L’ira dei Cento fulminò il donzello, che fu escluso
dall’affitto e licenziato, oltre ad essere denunciato per ottenere il
risarcimento del danno. Taddeo Benini si offrì di bonificare e coltivare l’area
versando 1,50 scudi annui, purché gli fosse affittata per vent’anni; i Cento
accettarono, e l’atto fu rogato il 18 febbraio 1702. A garanzia dei versamenti, Benini cedette ai Cento
Pacifici un capitale che fruttava quanto il canone, e si impegnò infine a
sistemare il terreno in modo da poter garantire anche per il futuro lo stesso
reddito.
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Postazione di tiro nei sotterranei del Torrione di Montecarlo (per gentile concessione dell'Ing. Luciano Santolini).
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Postazione di tiro e scala all'interno del Torrione di Montecarlo (per gentile concessione dell'Ing. Luciano Santolini).
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Nel
1723 il Torrione fu affittato, vita natural durante, al sacerdote di origini
fiamminghe Pietro Francesco Gofinet. Un inventario dell’epoca afferma che
l’orto era allora suddiviso in quattro fazzoletti di terra coltivati a fava ed
ortaggi circondati da piante aromatiche, fiori, alberi da frutto, olivi e viti.
Quattro anni dopo, il sacerdote fu costretto a rinunciare al Torrione in
quanto, essendo forestiero, non trovò alcun faentino disposto a garantire per
lui presso i Cento, e non poté quindi stipulare regolare contratto. Nel 1728,
l’orto fu affittato a Giulio Figadetti per i soliti tre anni; nell’inverno
1730-31 però, crollò il muro che divideva il terreno dalla strada. Secondo il
capomastro G. Battista Boschi, per rifarlo occorreva la spesa di 36 scudi,
rilevantissima rispetto alla tenue rendita che i Cento ricavavano
dall’immobile. Il muro era infatti lungo quasi 14 metri, alto 4,80 e spesso 48 cm. L’affittuario Figadetti si offrì di ricostruire
il muro, a condizione di ottenere il Torrione in enfiteusi per sé ed i suoi
discendenti, pagando soli due scudi annui. I Cento Pacifici accettarono, visto
che altrimenti nessuno avrebbe preso in affitto un orto non più recintato. Il
muro ricostruito è tuttora visibile, incorporato nella casa che oggi sorge sul
Torrione e segnalato da un rizzolo di
mattoni in coltello. L’instrumento d’enfiteusi fu rogato solo nel 1738; nel
1753 la famiglia Figadetti cedette il beneficio ad Artemisia Govoni Angognani,
di origine bolognese. Quattro anni dopo, ella vendé il Torrione a Don Ignazio
Caldesi, che agì in nome dei figli minorenni del fratello; essi ebbero
l’investitura nel 1758. Nel 1769, Francesco Caldesi vendé per 70 scudi a Tomaso
Baccarini, che ne ebbe regolare investitura dai Cento per due scudi annui.
Interno del Torrione di Montecarlo (per gentile concessione dell'Ing. Luciano Santolini).
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I
Caldesi ripresero possesso del Torrione nel primo decennio dell’Ottocento, e
dal Catasto del 1814 troviamo che il sotterraneo era destinato a ghiacciaia (a
servizio del vicino Macello), con orto superiore; possessore era Clemente
Caldesi. Tale famiglia rinnovò l’investitura nel 1827 e 1864, ma pochi anni
dopo l’anacronistica enfiteusi fu riscattata e l’immobile passò in piena
proprietà a Ferdinando Leonida Caldesi. Nel 1878 fu ceduto a Federico Baldi, e
nel 1890 ai sigg. Rinaldi e Casalini. Furono loro, nell’ultimo decennio
dell’Ottocento, a costruire il primo nucleo della casa sul Torrione, sopra
l’ingresso alla ghiacciaia. Agli inizi fu un piccolo edificio di sole tre
stanze, ma nel corso degli anni si estese in superficie ed altezza. Con atto
del 24 maggio 1920 rogato dal notaio Neri, il Torrione fu ceduto alla Società di Mutuo Soccorso “Monte Carlo”,
formata da sei soci comproprietari del fabbricato, i quali subito
sopraelevarono l’edificio di un piano. Per scarsità di fondi, il lavoro fu
eseguito in due riprese fra 1920 e 1922, con permesso speciale del Comune. A
differenza dei Fiori e dei Franchi, questa Società ebbe breve vita,
e per di più la casa fu danneggiata da un incendio alla fine del 1926 o inizi
del 1927.
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L’edificio fu così acquistato da Giulia Graziani in Albonetti, che ricostruì
parte della sopraelevazione ingrossando il muro esterno, troppo sottile e
pericolante; nel 1929 fu anche modificata la porta d’accesso alla ghiacciaia
sotto la doppia scala, che già esisteva nel 1920. Nel
1950 l’edificio, rimasto intatto dopo i bombardamenti, rimase alle figlie della
Graziani; queste decisero di ampliare il fabbricato, sopraelevandone una
porzione. Il primo progetto, del luglio 1951, incontrò l’unanime parere
negativo della Commissione d’Ornato e della Soprintendenza, in quanto poco
rispettoso delle caratteristiche storiche del Torrione. Dopo un paio di mesi di
trattative, il Geom. Camelli elaborò una nuova soluzione che finalmente ebbe
l’approvazione delle Autorità. La porzione di fabbricato che guarda verso il
Ponte delle Grazie fu sopraelevata di un piano impiegando mattoni a vista, e
furono aperte due finestrelle circolari ai lati della porta d’ingresso. Verso
il 1960-61 fu costruita la rampa stradale addossata al Torrione (vedi il
capitolo “Il Novecento”), mentre il sotterraneo si ridusse col tempo a sgombero
di ogni sorta di rottami. Solo di recente le antiche postazioni delle bombarde
sono state ripulite, e si possono finalmente apprezzare le poderose volte
quattrocentesche. E’ mio auspicio personale che in futuro questi affascinanti
sotterranei siano restaurati ed illuminati a dovere, ed almeno in certe
occasioni si possano aprire al pubblico.
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