I dipinti dell’ex Chiesa della SS. Annunziata
di Anna Tambini
LA PALA di Jacopone Bertucci
La tavola (cm 220 x 144), attualmente nel primo altare a destra,
raffigura la «Madonna col Bambino in trono tra due Santi», è nota anche
come «Madonna del Popolo» ed è sottoscritta «JACOBUS BERTUCIUS / FAVEN.
PINCXIT / M.D.LXXII». La paternità del Bertucci è confermata anche da
un documento inedito dell'Archivio Vescovile (P.A. 22, foglio 175),
dove il pittore Giacomo Bertucci, in data 14 luglio 1572, reclama il
pagamento di undici scudi d'oro da Paolo Lanzoni, come avanzo della
somma per il lavoro e la mercede di una sua tavola fatta per la
Confraternita del Borgo. L'inserzione alla data 1572 nel catalogo del
faentino Jacopone Bertucci (1502 circa -1579), non è pero, a nostro
avviso, senza problemi, perché l’opera si configura come un vero
«unicum» stilistico nel suo percorso, almeno per come oggi ci è noto.
Dalle opere rimaste il profilo di Jacopone si svolge con coerenza dal
manierismo di marca dossesca (fu infatti in stretto contatto di lavoro
coi Dossi fra il 1534-39), al michelangiolismo robusto, a cui non fu
estraneo il soggiorno a Roma del 1545-51, che lo conduce a forme ampie
e dilatate, di una plasticità rude e talora di un risentito
espressionismo. In tale contesto, la tavola appare un episodio isolato,
ispirato ad una ripresa classicistica più consona alla temperatura
«purista» del primo raffaellismo emiliano (sui modi di Innocenzo da
Imola e di Luca Longhi), che non al tardo manierismo degli anni '70.
La composizione è improntata a valori di euritmia e di
equilibrio; la derivazione da un archetipo raffaellesco traspare nel
tenero gruppo della Madonna col Bambino ed una tipologia tradizionale
persiste nei due Santi laterali, il cui panneggio è condotto a pieghe
rigide e tubolari come in un'opera di fine '400. Questi caratteri non
hanno riscontro negli insistiti effetti manieristici che connotano le
opere di Jacopone, precedenti come la «Disputa sulla Incoronazione
della Vergine» del 1565 (Faenza, Pinacoteca), ne con quelle che la
seguono immediatamente come il «Martirio di Santa Lucia» del 1573
(Forlì, Pinacoteca) e le tavole per il soffitto della chiesa dei
Camaldolesi del 1575.
Certi stilemi, quali la forma delle mani, la firma, ecc.,
sembrano comunque confermare l'autografia del Bertucci ed in tale
ottica sarebbe interessante capire i motivi che hanno provocato questa
ripresa raffaellesca. Forse non fu estraneo quel «clima di ritorno
all'ordine» predicato dalla Controriforma, che ebbe pesanti effetti a
Faenza col pontificate di Pio V. Lo stesso Jacopone subì un processo
per eresia nel 1567 e questa è la prima opera pervenutaci dopo
quell’episodio. Non è inoltre da escludere che Jacopone riprendesse e
portasse a termine una tavola già avviata in precedenza (i documenti ce
lo mostrano artista disordinato e poco puntuale nelle consegne).
II BALDINUCCI (1681-1702), a cui si deve la prima biografia di
«Jacomone da Faenza», lo qualifica come «discepolo di Raffaello»,
connotazione poi ridimensionata dalla critica seguente. La tavola in
esame ha indubbie analogie con dipinti faentini di Girolamo da Treviso,
ispirati al classicismo raffaellesco emiliano, come la «Madonna»
affrescata nella chiesa della Commenda nel 1533 e l’altra in San
Sebastiano a Castel Bolognese del 1532, mentre certe persistenze
arcaicizzanti riecheggiano i modi del padre, Giovanni Battista (il «San
Francesco» ha stilemi molto simili al «Sant'Antonio da Padova» della
pala Cittadini del 1511). La tavola potrebbe quindi verosimilmente
risalire agli anni '30, in un momento di più intima adesione ai modelli
classicisti, forse a seguito di un viaggio a Roma (dove nel 1534 il
pittore risulta iscritto all'Accademia di San Luca).
Problematica è anche la figura del Santo di sinistra, ritratto come
prete parato per la messa, vestito con camice e pianeta; ha la palma
del martirio e l'attributo del cane, che ha fatto pensare a San Donnino
(F. GIBBONS, 1968). L'ORETTI (1777) lo ritiene Santo Stefano, forse per
i ciottoli ai piedi dell’immagine. Il VALGIMIGLI («Memorie», vol. XVII,
fasc. 81, p. 11) lo indica come Sant'Antonino e lo si è creduto
Sant'Antonino di Apamea (G. FOSCHINI, S. Antonino nel Borgo Durbecco di
Faenza. Notizie Storiche, Faenza 1935, pp. 14-23).
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Jacopone Bertucci. Madonna col Bambino in trono,
San Francesco e Sant'Antonio, Oratorio della SS. Annunziata.
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Tendo piuttosto a
pensare che si tratti di Sant'Antonino di Cesarea, la cui memoria
ricorre il 13 novembre, poiché in tale giorno mi risulta che si
celebrasse in antico la festa del Santo nella chiesa faentina a lui
dedicata (Schede di Mons. Giuseppe Rossini, Biblioteca Comunale di
Faenza, voce «Sant'Antonino», in data 13 novembre 1515).
L'immagine faentina corrisponde bene a questo Sant'Antonino, che fu
presbitero e martire. Secondo la leggenda, il suo corpo fu lasciato
insepolto ai morsi dei cani, il che può spiegare l'attributo del cane e
il culto tributato al Santo, invocato contro il morso dei cani. La
tavola del Bertucci ci fornisce quindi un importante prototipo
iconografico; tale modello trapassa in un dipinto più tardo, conservato
tuttora nella chiesa di Sant'Antonino, dove similmente il Santo è
raffigurato vestito come prete con la pianeta e ha accanto un cane. Non
è da escludere che la pala del Bertucci fosse in origine nella chiesa
di Sant'Antonino; ma già il BALDINUCCI (1681-1702) la ricorda
all'altare maggiore nella Confraternita della SS. Annunziata. In
seguito la tavola fu adattata all'altare settecentesco, aggiungendovi
una fascia dipinta in basso ed una anche in alto. L'opera meriterebbe
un accurate restauro, che potrebbe chiarire alcune delle problematiche
da noi sollevate ed inoltre e una rara testimonianza di un pittore
faentino assai pregevole, che qui in particolare ha un buon senso delle
forme, calibrate ed armoniose e finalizzate ad una devozionalità
semplice e severa.
LA PALA di Giovanni Battista Bertucci il giovane
La tela con la «Annunciazione» (cm. 205 x 140) (fig. 2), nel prime
altare a sinistra, che un tempo figurava entro un'ancona lignea dorata
ora in Pinacoteca, è opera di Giovanni Battista Bertucci il giovane
(1539-1614), che si firma, come sua abitudine, nel cartiglio: «IOANNES
BAPTISTA / BERTUCIUS FAVEN / PINXIT 1591». Ultimo della illustre
famiglia dei pittori Bertucci, Giovanni Battista elabora una sua facile
ed ingenua cifra manieristica sulla base dei modelli dello zio
Jacopone, la quale può risultare talora ripetitiva, ma non è priva di
efficacia in certi spunti naturalistici e soprattutto nei ritratti di
immediata naturalezza.
L'opera in esame mostra l'assimilazione di motivi raffaelleschi,
assunti probabilmente per il tramite di incisioni, come è suggerito
dalla evidente composizione in controparte (le figure della Vergine e
dell'Angelo sono invertite rispetto allo schema consueto). Pensiamo al
supporto di stampe come, ad esempio, la nota «Annunciazione» incisa da
Francesco Villamena e da Marco Dente sulla base di un'opera di
Raffaello oggi scomparsa e in origine a Bologna. Con la suddetta stampa
vi sono affinità nell'idea della Vergine inginocchiata al leggio, nel
baldacchino che si intravede nello sfondo e nell'Eterno in gloria
d'angeli. La figura di Dio Padre, attorniato da putti che sembrano
quasi sorreggerlo, riecheggia un motivo di matrice raffaellesca
(«Visione dell'Eterno a Noè», nota anche dall'incisione di Marcantonio
Raimondi) e risulta assai prossimo all'Eterno affrescato da Girolamo da
Treviso nella chiesa faentina della Commenda nel 1533.
La ripresa dei modelli classicisti e condotta con una certa rudezza
espressiva; l’angelo, lungi dall'essere idealizzato, ci appare come un
robusto garzone, che invade lo spazio ristretto dell’ambiente, dove la
cesta dei panni introduce un'annotazione realistica e quotidiana. La
forma del leggio intagliato rimanda a modelli cinquecenteschi con cui
Giovanni Battista poteva avere consuetudine tramite il padre Raffaele,
qualificato anche come falegname; l’ornato della sfinge è motivo
derivato dalla decorazione a grottesca, di cui l'artista fece pratica a
Roma insieme allo zio Jacopone.
L'opera è espressiva della devozionalità semplice e popolare, cara alle
confraternite per le quali il Bertucci spesso lavorava. L'artista qui
ci appare diligente nella descrizione del dettagli ed efficace nei
vivaci colori cangianti e nei panneggi grassi ed insistiti, ma risulta
un po' approssimato nella resa spaziale, che tende a ribaltare in primo
piano.
Da quest'opera è ripetuto con poche varianti il gruppo della
Vergine e dell'Angelo nella successiva «Annunciazione» di Solarolo del
1599, mentre l'apparizione del padre Eterno con gli angeli fra le
nuvole, è riproposta in maniera quasi analoga nel «Battesimo di Cristo»
del 1610, nella Pinacoteca di Faenza. Ciò palesa la sostanziale
uniformità del repertorio figurativo dell’artista, che soprattutto
nella sua attività tarda, resta legato a formule e schemi di sapore
ormai ritardatario rispetto ai nuovi fermenti della pittura coeva.
Il dipinto necessita di un urgente intervento di consolidamento e
restauro, per arrestare il degrado dovuto a cadute di colore, buchi
nella tela, ecc.
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Gionanni Battista Bertucci. Annunciazione,
Oratorio della SS. Annunziata.
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